[Luca Dipierro, artista visivo, scrittore e filmmaker nato in Italia e oggi residente negli Stati Uniti, ha appena pubblicato con Madcap Collective Biscotti neri, un libro di racconti che sin dalla copertina sono definiti “finzioni”. È un libro piccolo, che nell’impaginazione e nella grafica ricorda piuttosto un volume di poesia – effetto voluto, perché la lingua di queste pagine ha una densità che appartiene più alla ricerca poetica che agli inevitabili compromessi della narrativa. Ho scritto, dopo averne letti diversi in anteprima: “Monologhi secchi, scabri, bucherellati. Voci che trattengono, per volontà o per difetto. Dietro, vite misteriose: ne intravediamo solo i gesti, le piccole crudeltà, ne ascoltiamo i rimuginii e le urla”. E ha scritto Jim Knipfel, autore di Slackjaw e di These Children Who Come at You With Knives: “Le sue storie sono cupe, surreali, inquietanti, ma anche incredibilmente divertenti. La sua scrittura possiede un’originalità assoluta”.
Visto che mi legano a Luca un’amicizia ormai lunga e una sorta di complicità che si è concretizzata talvolta in progetti comuni (ricordo almeno Santi – Lives of Modern Saints, antologia bilingue di autori italiani e statunitensi curata da Dipierro e pubblicata dalla sua Black Arrow Press a Baltimora), ho approfittato dell’uscita  di Biscotti neri per chiacchierare con lui attorno alla scrittura e ad altro. Luca, invece di limitarsi a rispondere, ha voluto coinvolgermi nella conversazione, rilanciando ad ogni risposta – e di questo lo ringrazio.]

Claudio Morandini | Luca, nei tuoi racconti raccolti in Biscotti neri colpisce il lavoro di sottrazione di cui si avvertono tracce praticamente ad ogni parola. Sono parole “ritagliate”, come ho già detto in un’altra occasione, denudate di ogni orpello, e proprio per questo sono caricate di una forza espressiva particolare. Sono pensate, e molto, prima di essere scritte. Sono il frutto di una selezione che si intuisce drastica, impietosa. Ora, mi trovo anch’io in sintonia con te – la letteratura, quella vera, è fatta soprattutto di sottrazione, di rinunce, anche dolorose, sempre in nome di un’esaltazione dell’espressione (non sto parlando dei tagli e delle sforbiciate tipiche dell’editoria che vuole “normalizzare” e ridurre a prodotto un’opera letteraria). A volte, però, mi capita di sentire il fascino (pericoloso, rischioso) dell’eccesso, della ripetizione, dell’iperbole, dello sbrodolamento – un’ansia totalizzante in cui niente deve essere sottinteso, molto ottocentesca a pensarci bene. Frasi interminabili, ipotassi rigonfia, lessico dopato, gesti enfatici… Da Webern a Villa-Lobos, insomma, o da Cage a Liberace, per cambiare di contesto. A te non capita mai?

Luca Dipierro | Capita anche a me di sentire il fascino dell’ipertrofia, eccome. Uno dei miei scrittori preferiti è William Gass, autore di un romanzo, The Tunnell, che è un vero inno all’ipertrofia letteraria, in tutti i sensi, linguistico, stilistico, anche tipografico. Gass ci ha impiegato ventisei anni a scriverlo, e non conosco nessuno che lo abbia letto tutto pagina per pagina. Mi piace pensare che per leggerlo ci si debbia impiegare almeno lo stesso tempo, ventisei anni, o forse anche di più.
La mia riduzione all’osso nasce anche dalla mia fascinazione per l’eccesso. Sono facce della stessa medaglia. Il fatto che tolga parole su parole dai miei racconti non significa che non siano lì. L’arte di scrivere per me è nel far succedere cose senza metterle sulla pagina.
Come scrittore, quello che voglio fare è scrivere parole che facciano comparire altre parole, e cose, nella mente del lettore. Come lettore e come scrittore mi interessa l’eccesso, in un senso o  nell’altro. Anche gli scrittori ipertrofici fanno qualcosa con la mente nel lettore. Più scrivono e più cose fanno sparire.
Non scriverei nemmeno una riga se non ci fosse una continua sfida con le parole. La scrittura, per avere senso, deve essere estrema. Ho cominciato a trovare la mia voce credo cinque anni fa, quando mi sono trasferito negli States e ho cominciato a scrivere e a pubblicare storie in inglese. Ho sentito il bisogno di scrivere in una lingua non mia, in cui avessi una scelta limitata di parole, di unità da combinare. Sono ritornato all’italiano con un senso di estraneità ed è allora che ho imparato a usare la lingua invece che esserne usato.
E tu, quando hai trovato la tua lingua?

Claudio Morandini | Quello che racconti del tuo rapporto con la parola è estremamente interessante, soprattutto oggi, in cui ogni discorso legato a uno stile viene visto con diffidenza (oggi contano i fatti, diamine, altro che le parole, e poco importa se i fatti sono sempre gli stessi e la consapevolezza linguistica è sempre più approssimativa). La tua posizione mi ricorda quella di certi scrittori di frontiera che hanno conquistato l’italiano parola per parola e per finire si sono fatti un italiano che è solo loro (sono autori che mi sono molto cari, e che ho studiato a lungo, soprattutto i piemontesi come Pavese e Fenoglio).
Quanto a me, non so bene di cosa sia fatta la mia lingua. Dentro ci sento risuonare molto della tradizione letteraria (immagino che sia inevitabile diventare manzoniani dopo venticinque anni di insegnamento di Promessi sposi…), ma molto meno di una volta, quando mi lasciavo andare a omaggiare i classici in un gioco un tantino postmoderno di rimandi e ammiccamenti. So però abbastanza bene che cosa non ci voglio, che cosa cerco di evitare: l’intrusione della corrività contemporanea, il cliché giornalistico o televisivo, la soluzione da dialogo cinematografico, la velocità denotativa a tutti i costi. Sono cose che non fanno bene all’espressione letteraria, e che anche virgolettate, parodiate, ormai mi danno fastidio. D’altro canto, cerco anche di indulgere assai meno di un tempo all’uso di un linguaggio figurato fatto di metafore e soprattutto similitudini. Quello che mi resta e mi interessa, insomma, è una lingua che sia insieme precisa e allusiva, complessa quel tanto che basti a suggerire le contorsioni della realtà o della nostra percezione di essa. È curioso: più di una volta sono stato trattato come uno scrittore sperimentale solo perché cerco di scrivere bene. È un segno dei tempi, non trovi?
Tornando a te: leggendoti, ho trovato da subito un forte collegamento tra la tua scrittura, le tue parole “ritagliate”, come si diceva all’inizio, e il tuo lavoro di artista e regista. Vuoi approfondire questo aspetto?

Luca Dipierro | Claudio, per me tra scrittura e arti vive c’è un rapporto strettissimo. Ad esempio, mi hanno sempre interessato tutte le forme ibride: calligrammi, alfabeti figurativi, illustrazioni, ex-voto, fumetti eccetera. La storia di queste forme è ricchissima e intricata, e in un certo senso sotterranea. Il sistema normativo (mondo, società o sistema delle arti, chiamalo come vuoi) ha sempre avuto difficoltà a maneggiare artefatti in cui comparissero parole e immagini fianco a fianco. è stato eretto un muro tra le due. Michel Butor, in un bellissimo libro intitolato Les mots dans la peinture, scrive che “le parole sono anche qualcosa che guardiamo, le immagini sono anche qualcosa che leggiamo”. Mi ha sempre interessato questa dinamica tra il leggere e il guardare. Ecco, forse il problema della società con le forme ibride è il fatto che rendono l’oggetto artistico sfuggente: non è più un oggetto statico, non ha più confini delimitabili una volta per tutte, ma si forma mano a mano che lo guardiamo/leggiamo.
Non riesco mai a dimenticare che le lettere dell’alfabeto sono essenzialmente disegni. In questo senso gli alfabeti figurativi, lettere fatte di pesci o aquile o corpi aggrovigliati, sono emblematici: quando smettiamo di guardarli e quando cominciamo a leggerli?
Io mi sono sempre trovato diviso tra questi due mondi, tra le cose che si guardano e le cose che si leggono, e mi ha sempre interessato lavorare con entrambe.
Nel costruire un’illustrazione o un film animato, disegno e dipingo un certo numero di figure, poi le ritaglio (e il ritagliarle è l’atto fondamentale per me, che le trasforma in unità, come lettere di un alfabeto visivo) e le muovo sulla superficie della tavola (che è sempre il rovescio della copertina di un vecchio libro, tanto per ribadire l’appartenere delle mie immagini al mondo delle parole) per farle interagire, per costruire dinamiche narrative. Allo stesso modo lavoro con le parole: uso un numero limitato, estremamente selettivo di unità per costruire le mie storie. Spesso ho cominciato un racconto con solo tre parole (per esempio “mosche”, “albero e “nano” nel racconto Buco), e poi ho esplorato tutte le possibili combinazioni. Non è pura combinatoria, perché le parole che scelgo, le combinazioni obbediscono a un criterio preciso, quasi musicale, stilistico. Deve suonare “giusto”. Quello che mi interessa è raggiungere una verità emozionale. E lo stile, come scrive Roland Barthes, è verticale, affonda e sue radici nel vissuto, nella persona.
Claudio, che mi dici invece del tuo rapporto con il visivo? C’è qualcosa nella tua scrittura che mi fa pensare a certi pittori ad olio, in particolare a un pittore figurativo norvegese, Odd Nerdrum. Lo conosci? In lui come in te c’è una densità della rappresentazione che disturba, che diffonde “unheimlich”. Vedo male io? So che sei o sei stato un disegnatore anche tu…

Claudio Morandini | Non conoscevo Nerdrum, ma una breve ricerca mi ha permesso di colmare la lacuna. Davvero impressionante – meglio, “perturbante”. A colpirmi non sono tanto le figure tra Bruegel e Géricault, quanto la minuzia con cui è descritta la nudità dei paesaggi che fanno da sfondo. Ti dirò, il mio rapporto con il visivo è strano, e me ne rendo conto sempre più. Per esempio, in pittura amo soprattutto il ritratto – ma ora, quando scrivo, non descrivo quasi mai volti o fattezze. Amo anche i paesaggi naturali, ma da scrittore non sento il bisogno di soffermarmi sui paesaggi – giusto un dettaglio o due, sparso nella pagina, e in questo sì mi sento simile a Nerdrum. Lo stesso potrei dire degli interni – un paio di dettagli, i primi che mi vengono in mente, e per il resto ombra, o vaghezza, a meno che non ci siano corridoi. Certo, ai tempi de Le larve mi sono concesso ampie pagine descrittive, di gusto tra il preromantico e il decadente, ma anche in quelle pagine mi rendo conto di aver privilegiato l’accumulo di dettagli, non di aver voluto dare un quadro l’assieme. Da questa visione giocata sull’accumulo (ma sto cambiando, come dicevo, sono sempre più stringato, sempre più impaziente) nasce quella specie di perturbazione della percezione a cui ti riferisci.
I miei disegni a china di una volta (stiamo parlando degli anni novanta) sono un’esperienza passata, anche a causa del calo della vista. Erano lavori di pazienza, tratto su tratto, talvolta maniacali e dominati da una sorta di horror vacui, in cui per effetto della particolare tecnica a china tutto finiva per assomigliare a contorsioni di radici o di arti o di interiora. Se ho smesso è anche perché cominciavo a sentirmi un manierista, e soprattutto perché nel frattempo avevo scoperto i piaceri dell’invenzione di storie attraverso la scrittura.
Ma torniamo a te, Luca: il tuo ultimo intervento mi ha fatto venire voglia di porti una domanda. Qual è il tuo rapporto con la memoria (la tua memoria, intendo: ad esempio, la tua infanzia, i luoghi da cui provieni, la lingua che hai parlato…)?

Luca Dipierro | Nella scrittura mi interessa l’invenzione. Il mio libro ha per sottotitolo “finzioni”, perché volevo ribadire il fatto che quando si scrive si inventa tutto. Il passato creda sia per chiunque, scrittori e no, la base di ogni processo cognitivo, un’accumularsi di informazioni che poi uno usa in diversi modi. Nel mio caso non è certo la costruzione delle psicologie, perché non ne costruisco nessuna, né i pensieri dell’io narrante, perché cerco di inventare, anzi, di far parlare sempre personaggi diversi da me, ma, più di ogni altra cosa è una topografia. In ogni cosa che scrivo c’è uno spazio in cui i personaggi si muovono. Lo spazio è importantissimo. Il fuori e il dentro: stanze, scale, porte, strade, finestre, palazzi, campi, alberi. Visto che non ho nessun interesse nel descrivere questo spazio, e che invece voglio si crei, tramite movimenti e voce dei personaggi, nella mente del lettore, devo avere questo spazio già pronto, in ogni dettaglio, come in una cartina geografica. Per fare questo, chiudo gli occhi e uso il mio vissuto, stanze in cui ho abitato, quartieri in cui ho camminato ecc. Faccio aderire la voce dei personaggi a contorni che conosco a memoria. Questo non ha importanza per il libro, per il lettore, ma è una tecnica per me.
Per quanto riguarda la lingua invece, il fatto che non debba più usare l’italiano nella vita di tutti i giorni mi ha permesso di trattarlo come un oggetto, di impiegarlo come lingua letteraria, come artificio, e di usarlo in modi estranianti.

[La conversazione con Luca si conclude qui, perché ormai la carne al fuoco è molta, e le cose più importanti, quelle più urgenti, sono state dette. Ma avremmo potuto continuare a lungo, e non è detto che non riprenderemo da qui. Per ora non mi resta che suggerire di cercare (è bello cercare i libri!) Biscotti neri, le “finzioni” di Luca Dipierro pubblicate da Madcap Collective.]

(http://www.malicuvata.it/-modi-verbosi-/-del-2011-/334-conversazione-con-luca-dipierro.html, Venerdì 22 Aprile 2011)

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