Claudio Morandini continua con le sue ambientazioni alpestri e immagina un protagonista segnato dalle violenze subite in casa da bambino. Questa volta c’è di mezzo una campagna elettorale descritta facendo ricorso al grottesco

La montagna è buia, il padre picchia

Nel migliore dei casi è «buia», appunto, la montagna che popola le pagine di La conca buia di Claudio Morandini. Nel peggiore, un autentico inferno; o, almeno, lo è stato per il piccolo Franco Gavaglià, unico sopravvissuto tra «i miei tanti fratellini», costantemente sommerso dalle «botte che mi dava mio padre, senza che sapessi perché, e con metodo e ritmo uniforme, sempre in silenzio, con l’espressione di un mulo». E non a lui solo; pure alla mamma che «gli si buttava addosso per separarci» continuando «a menare colpi, finché qualcosa (un nodo di tosse, l’arrivo di qualcuno, o la stanchezza, o un pensiero) non lo distraeva».
Vittime d’un «padre-padrone», figlio e madre, e però, dal destino differente: perché almeno Franco riesce a un certo momento a sottrarsene, lottando e facendo anche a botte per poter studiare, magari falsificando alcune firme, perché «avevo capito che era possibile cavarsela con dignità girando attorno alle cose, invece che prendendole di petto», aspirando «a essere un campione di condiscendenza» che ne ha fatto agli occhi della figlia Leda un «modello negativo» di padre e di uomo. Non così per la madre, scivolata nella demenza senza accorgersene e che solo più tardi il figlio riuscirà a sottrarre a quella vita.
Franco, entrato in politica, sino a diventar sindaco d’un vasto comune «che dal basso si allunga nella valle fino agli ultimi pascoli e include un numero impressionante di frazioni e borghi ancora abitati», deve ora affrontare un mese di campagna elettorale per la rielezione. Di qui un romanzo che incrocia varie componenti: calando Morandini, nella sua consueta tutta personale ambientazione montana, temi familiari e un contesto da «campagna elettorale», a buon diritto rientrante nella tipologia inaugurata nell’immediato dopoguerra da Giovannino Guareschi ed Enzo Bettiza e Italo Calvino. Tanto più che si tratta d’una campagna elettorale vecchia maniera: con comizi tenuti anche davanti a cinque persone o ai soli propri supporter, con i soliti «scrocconi che si manifestano all’ultimo momento» puntando subito al buffet.
«E ci si inventa di tutto, per avere quei voti, di tutto». Ciò che determina la scelta di Franco, in considerazione della tipologia dei votanti: invocare «le tradizioni. Il lavoro. I valori, la terra. La fedeltà. La trasparenza», impersonandoli nella figura d’«un lavoratore infaticabile, un prometeico eroe della montagna». Suo padre, appunto: che però non ha perso i suoi scatti rabbiosi. Ciò che comporta grotteschi consulti con psichiatra, farmacista e geriatri per sperimentare farmaci che gli stampino «in faccia una mitezza stolida, melensa», che comunque alimenta sospetti di truffa stante la non somiglianza tra i due, per via d’un Franco dalla «pancia da cittadino» e sofferente di svariati acciacchi.
Di qui la necessità, per tenersi buono il padre, di coinvolgere nell’operazione quella figlia «sempre in giro per il mondo» lavorando «in un settore di difficile definizione», dalla «intelligenza critica puntigliosamente lontana dai compromessi», puntando sulla sua sensibilità nei confronti degli altri e dell’affetto che l’ha legata alla nonna, ma pure al nonno. E sarà appunto durante un’assenza di Leda che il nonno, ingannato il badante non assumendo le medicine, dà vita a una situazione quanto mai grottesca, non priva di risvolti umoristici e momenti di teatralità, fuggendo e facendosi regalare da un anziano della frazione un fucile; con quanto ne consegue, considerando la presenza della stampa.
Del resto, il grottesco è parte forte del romanzo, riaffacciandosi in varie occasioni e avventure elettorali; senza però cacciare da un lato quel «buio» che, aprendosi talora nel segno della natura, si traduce in tono intimo e malinconico in un Franco al quale il mondo «sembrava più terso, meno putrido, quando il buio totale lo avvolgeva»; in particolare quando rievoca i momenti di solitudine che andava a cercarsi in quella conca «mai toccata dal sole, nemmeno d’estate» scoperta da bambino rincorrendo una capra, e dove con «quei sassi umidi, giorno dopo giorno, eressi degli omini su rocce più grandi e piatte», salvo ritrovarseli distrutti dal padre che l’ha seguito di nascosto — un ricordo che conterà non poco nel finale quando tornerà in quel luogo trascinandosi il padre, costringendolo «a rimanere in piedi» con «alzate le braccia» in mezzo alla conca,in un inferno d’acqua e fulmini.
Quanto invece agli squarci di luce, sono incarnati dalla tenerezza di Leda, sempre disponibile nei confronti degli altri e che proprio per questo si fa coinvolgere nella campagna elettorale; una figura ora in dialogante presenza narrativa col padre, ora come destinataria delle confidenze che le invia, nelle quali però verità passate si alternano in funzione manipolatoria a bugie per il presente. Una Leda quasi variante dell’etnomusicologa de Gli oscillanti (2019), oscillante ella stessa, combattuta tra attrazione e repulsione, e che, ove prevarica la prima, coltiva qualche utopica velleità, come aprire una libreria nella baita da ristrutturare all’Alpe.
Si tratta di un romanzo in prima persona, come i precedenti (Le pietre, 2017; Gli oscillanti; ma pure Catalogo dei silenzi e delle attese, 2022: dal quale è ripreso anche, ma in modo più trasversale, il racconto d’un passato infantile di «picchiato»); e però con improvvisi scivolamenti al «tu» alla figlia (e, nel finale, un curioso «voi» di raccomandazione ai lettori, come già in Le pietre), affidato a una scrittura al tempo stesso misurata, netta e precisa nel muoversi tra i differenti toni che si alternano: drammatici, colloquiali, grotteschi, subdoli. E con il tema del male, e la sua inesplicabilità, a far da tramatura: si tratti della follia del padre che s’impossessa alla fine anche di Franco; o del male interiore che lacera la madre; o di quello, ambiguo, di cui Franco stesso è portatore come politico e amministratore, ma pure nei rapporti con gli altri, a partire dalla figlia «usata».

(Ermanno Paccagnini, La Lettura – Corriere della Sera, 8/10/2023)

  • Share on Tumblr