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Il nuovo romanzo di Claudio Morandini racconta il lato oscuro della montagna

Claudio Morandini torna in libreria con il nuovo romanzo “La conca buia” (Nottetempo), una storia di potere e di montagna. Il protagonista è il sindaco di un piccolo paese che vuole essere rieletto nella vicina contesa elettorale, solo che non rappresenta più l’algido uomo di montagna, silenzioso, magro e volitivo ma è la più perfetta pingue rappresentazione del potere. Come vincere allora le elezioni? Rispolverando il vecchio padre, simbolo dell’educazione montanara, con tutti i pregi e difetti. Morandini con “La conca buia” sembra voler raccontare il lato oscuro della montagna, l’aspetto più buio e glaciale; per farlo decide di utilizzare il microcosmo di una campagna elettorale capace di esacerbare e far esplodere, come una provetta in laboratorio, i lati più nascosti e ambigui di una comunità.

Cosa è il potere per te?
Per me il punto di partenza è stata l’idea di raccontare una storia di conflitti e contrasti, di incompatibilità profonde; e ho scelto la montagna perché capace di amplificare queste dinamiche. Il vecchio Gavaglià dominava con la violenza sulle sue cose, gli animali e le persone, mentre il figlio protagonista esercita un modesto potere su una comunità di montagna. È un sindaco non cattivo ma abituato a muoversi con opportunismo, e l’ho immaginato barcamenarsi in questo sottobosco provinciale di figure ambigue. Anche la campagna elettorale si fonda sul nulla, sul dispetto, sull’equivoco, senza un vero confronto.

Quindi come oggi?
Sì, in effetti sì. Non mi sono posto però l’obiettivo di fare la satira del presente, quel particolare tono è venuto da sé. Aggiungo che purtroppo ormai la realtà supera di gran lunga la satira. 

Il politico oggi può essere raccontato solo come un impostore?
L’arma più efficace del sindaco è una certa abilità retorica, la capacità di usare le parole e anche le immagini. Lui si riferisce a un passato idealizzato, una sorta di Arcadia in cui tutto funzionava bene e la vita era moralmente solida. È un mito che si sente spesso in bocca a esponenti della politica di provincia, e Franco Gavaglià fa esattamente questo, anche se nel suo intimo sa che non è così, perché lui ha conosciuto sulla sua pelle l’effettiva realtà del passato, sa che suo padre in realtà è un mostro e che anche la montagna è spietata. Proprio per questo alla fine la sua retorica non basta più e si inceppa, quando la realtà prende il sopravvento.
Ma Gavaglià è Gavaglià, non vuole essere un personaggio emblematico; voglio sperare che ci sia ancora tra chi si dà alla politica qualcuno con ambizioni e orizzonti migliori.

Nel tuo libro c’è anche il racconto della paternità, di Gavaglià con suo padre e di Gavaglià con sua figlia, è una sorta di storia di trasformazione del ruolo di padre nella famiglia: il nonno aveva quel ruolo dispotico in cui l’educazione si insegna con le botte, invece il sindaco Gavaglià nei confronti della figlia è un padre accudente, attento e premuroso. Che ne pensi?
Da una parte abbiamo sì la prevaricazione, una pedagogia rozza fondata sulla violenza, un tiranno vero e proprio. Dall’altra un genitore che proprio in virtù di quello che ha subito da ragazzino prova a essere diverso. Si passa dal ruolo tirannico del nonno a un ruolo più attento e interessato del protagonista. Gavaglià riconosce dallo sguardo tra gli adulti altri che sono stati vittima di genitori violenti e sa che di sicuro anche loro si muoveranno esitando nei confronti della vita, dei propri figli. È curioso della figlia, colpito da ciò che lui mai potrebbe essere. Entrambi i padri però sono un po’ vittima del loro ruolo angusto, ruolo che nemmeno oggi il maschio è riuscito a capire e definire fino in fondo.

Il racconto della montagna è condizionato da questa gabbia del passato mitologico e del rapporto con la natura?
È un problema che chi scrive della montagna si deve porre; io ho provato a risolverlo buttando all’aria certi cliché, rigirandoli e mettendoli a nudo, per cui all’interno della comunità di montagna raccontata nel libro esplode devastante un conflitto che cerca di contraddire questa visione armoniosa. Un aspetto che ritorna spesso in ciò che scrivo è la montagna come una sorta di prigionia, di blocco che preclude qualunque via possibile di fuga.

Nel tuo libro mi sembra che sia molto presente il tema dell’immagine di sé e della distorsione che questo porta, che ne pensi?
C’è questo elemento, senza che sia collegato solo agli ultimi ritrovati tecnologici. Questo romanzo d’altronde è nato una decina d’anni fa, praticamente in un’altra epoca. In effetti in Gavaglià e negli altri c’è il tentativo di costruire un’immagine di sé, però non sembra funzionare, il tentativo continuo di non essere se stessi ma di costruirsi in qualcosa di diverso conduce solo a una deformazione.

Questo libro lo scrivi da dieci anni, come è cambiato il mondo mentre lo scrivevi?
È c
ambiato del tutto e in molti modi. Sì dieci anni fa avevo imbastito la situazione, ma poi la storia l’ho scritta pian piano nel tempo e non mi sono posto il problema di aggiornarla più di tanto. In questo senso la gabbia della montagna di cui parlavamo mi ha aiutato. Nel romanzo si rimane in una situazione che non è proprio attuale – d’altronde io sono un sostenitore dell’inattualità del romanzo, che non può essere analisi della realtà, ha leggi sue, ha un funzionamento suo, in un certo senso deve essere inattuale, altrimenti si riduce a cronaca.

(Antonio Sunseri, Linkiesta)

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