La “conca buia” è il rifugio dalle botte del padre-padrone

Da una parte c’è la montagna: dura, cupa e magnifica. Dall’altra la città, tutta comodità e opportunismi. La montagna ferisce, la città circuisce. E la cura? Dove può nascondersi la salvezza? A quali condizioni il passato può cessare di essere una condanna? Tappa ulteriore di un percorso narrativo avviato fin dai primi anni Duemila e venuto definitivamente a emersione nel 2015 con il fortunato Neve, cane, piede, il nuovo romanzo di Claudio Morandini rappresenta il riepilogo e insieme il rilancio di una poetica che fa perno sui temi del paesaggio e della colpa. Lo rivela già il titolo, La conca buia, che rinvia al solo luogo nel quale il protagonista del libro riusciva a trovare rifugio durante l’infanzia. Franco Gavaglià (questo il nome dell’uomo, che della vicenda è anche voce narrante) si direbbe ormai emancipato dal retaggio lasciatogli dalle botte e maltrattamenti di un padre dispotico fino alla persecuzione. Franco è sceso a valle, ha studiato, è diventato sindaco di un piccolo Comune piemontese che, nel corso degli anni, è cresciuto su di sé assorbendo i villaggi delle valli circostanti. Il sindaco ha persino preso peso, tra un pranzo di lavoro e l’altro, in un inconscio tentativo di differenziarsi ancora di più dalla figura asciutta e ancora possente del padre minaccioso. Dentro di sé, però, Franco non ha mai smesso di covare un risentimento misto di paura e reso ancora più angosciante dall’intesa che lega la sua unica figlia, l’errabonda Leda, al nonno. La conca buia si apre su questa situazione di stallo emotivo, subito messa in discussione da un imprevisto che parrebbe svariare sul tragicomico. Le elezioni amministrative sono alle porte, la riconferma del primo cittadino poggia su premesse vacillanti, c’è l’urgenza di una trovata di comunicazione che risollevi le sorti della campagna. Niente di meglio che sviluppare la narrativa di un’epica familiare su sfondo alpestre, con il buon Gavaglià che gira di comizio in comizio portandosi appresso il padre segaligno e taciturno. Che la tranquillità del vegliardo – ancora incline, quando capita, a sfuriate furibonde – sia l’effetto dei medicinali somministrati da un drappello di medici compiacenti è un segreto non soltanto di marketing, dei quali pochi sono al corrente. Complice riluttante della discutibile impresa è la stessa Leda, che davvero non riesce a conciliare l’immagine del nonno amorevole con i racconti dai quali lo stesso anziano esce come implacabile padre-padrone. Al centro di tutto sta appunto la famosa «conca buia», che per Franco è rimasta il grembo oscuro in cui trovare rifugio (la madre, all’epoca, è la stata la prima vittima degli abusi domestici) e che agli occhi di Leda assume invece le caratteristiche di una minuscola valle incantata. Proprio lì, dopo una serie di peripezie spesso sull’orlo del grottesco, è destinata a chiudersi la storia, ammesso che quella rilevata da Morandini non sia in effetti un’altra cicatrice. Anzi, il trauma estremo, che ribadisce senza guarire. Come già nei romanzi precedenti, anche nella Conca buia colpisce l’equilibrio di una lingua capace di praticare il più disinvolto mimetismo rispetto alle consuetudini della contemporaneità e di conservare, nello stesso tempo, una purezza che rimanda alla grande tradizione di una parte della letteratura francofona: oltre a quello di Charles Ramuz, i riferimenti più riconoscibili sono costituiti dalle opere di Maurice Chappaz e di Jacques Chessex, il quale ultimo presta – non casualmente – una delle epigrafi poste in apertura della Conca buia. L’altra citazione deriva, un po’ a sorpresa, da Un viaggio elettorale di Francesco De Sanctis, indimenticabile epopea della politica nostrana all’indomani dell’Unità, quando dal sogno del Risorgimento si stava passando al dormiveglia del conformismo. Una stagione di mediocri che faceva seguito all’era degli eroi. Sarà un’impressione, ma è proprio questo il rovello che assilla l’irresoluto Gavaglià: per essere un padre forse non è sufficiente astenersi dall’essere un orco.

(Alessandro Zaccuri, Avvenire, 27 ottobre 2023)

  • Share on Tumblr