La conca buia, Morandini e l’essenza della montagna

La montagna, con tutte le sue contraddizioni e il suo fascino misterioso, torna al centro del nuovo romanzo di Claudio Morandini, La conca buia (nottetempo). Il protagonista della vicenda è Franco Gavaglià, in corsa per la carica di sindaco del paesino dove è nato e cresciuto, e dal quale è tante volte fuggito. La conca buia è, infatti, il luogo nel quale l’uomo trovava rifugio durante l’infanzia, un periodo della sua vita segnato dalle violenze del padre, persona ombrosa che, però, si scopre centrale per la campagna elettorale del figlio.
Deciso a conquistare la guida del suo borgo tra le rocce del Piemonte, Gavaglià scoprirà nella figura del padre la strada che porta alle preferenze dei suoi elettori, che nel carattere e nei gesti del vecchio ritrovano l’essenza di quelle montagne, quella di cui il protagonista ha assolutamente bisogno per affermarsi.
Il romanzo affronta, così, la tematica della violenza, di una natura umana che, per quanto provi ad allontanarsi dal contesto in cui si forma, non se ne distacca mai del tutto. Gavaglià – come racconta l’autore – è prigioniero del suo ruolo e dei suoi luoghi, anche dei suoi luoghi comuni, quelli con cui condisce la sua storia. Forte di un lavoro molto attento alla lingua, La conca buia è una felice conferma della ricerca che la casa editrice nottetempo sta portando avanti grazie al lavoro di Alessandro Gazoia e con il quale sta segnando le pubblicazioni di qualità degli ultimi anni.
Abbiamo intervistato l’autore.

Quando si parla di montagna, si accenna sempre all’appartenenza e questo libro non fa differenza. Non a caso, il protagonista de La conca buia, Franco Gavaglià, che se n’è allontanato, cerca nella controversa figura del padre quel sentimento che può far breccia nel suo elettorato. Come mai la montagna sembra sempre così legata a chi la vive in tutti i suoi aspetti e contraddizioni?

«L’appartenenza, come la racconto io nei miei romanzi “di montagna”, diventa un radicamento ostinato e folle, incomprensibile. I montanari – quelli dei miei libri, intendo, perché non è detto che rispecchino esattamente quelli reali – non vogliono e non sanno staccarsi dal loro piccolo, angusto mondo: hanno paura del progresso, delle novità, degli stranieri, dell’orizzontalità della pianura. Si aggrappano cocciutamente ai loro villaggi come naufraghi alle loro zattere. L’elaborazione mitica del passato, in cui il rapporto degli antenati con l’ambiente era stretto e forte, aggiunge un bel po’ di melassa, di enfasi a questo radicamento, lo giustifica e lo rende accettabile».

A proposito della figura del padre di Franco Gavaglià, parliamo di un uomo che ha sempre adoperato violenza nei confronti della famiglia, quasi fino a schiavizzarla. Il tema della violenza oggi è centrale in tantissime narrazioni della società. Tu come hai deciso di declinarlo?

«Quella di Gavaglià padre è una violenza primitiva, barbarica, esercitata sulle cose, gli animali e gli esseri viventi. Il potere, limitato ma assoluto, che si basa su di essa non ha bisogno di parole – il vecchio non parla quasi mai – ma solo di gesti, di dolore. Non ha nemmeno bisogno di un senso: le sue botte sono temibili anche perché possono arrivare pure senza un motivo. Non conosce nemmeno gradazione: non ci sono percosse meno forti di altre, sono tutte feroci allo stesso modo. Il vecchio continuerebbe a esercitare il suo dominio, se non avesse perso le forze e non fosse stato portato via dai luoghi su cui ha dominato».

Il protagonista, nonostante abbia cercato per tutta la vita di scappare dalle angherie del suo genitore, di non assomigliargli in nulla, di fatto se ne serve, quasi trova una propria linea di connessione con il passato e il presente dell’uomo. Di cosa si tratta? Di mero opportunismo o di una natura umana che, di fatto, quando si sviluppa in un determinato contesto, non se ne distacca mai del tutto?

«Franco Gavaglià ha imparato a praticare più sottilmente il potere attraverso il condizionamento delle parole: anche lui, come una volta il padre, si accontenta di esercitare la sua autorità su un piccolo territorio, probabilmente per mancanza di ambizione o per quieto vivere. Attraverso la retorica rimodella il suo passato atroce e disperante e lo rende attraente e politicamente spendibile: le parole forse gli consentono di rendere sopportabile quel passato anche a se stesso. Hai ragione, non è solo opportunismo il suo: come il padre, anche lui è una bestia in gabbia, solo addomesticata».

Gavaglià è disposto a qualsiasi cosa pur di riaffermarsi in quel suo paesino di montagna. Il tema del potere è, dunque, centrale quanto quello appena affrontato della violenza. Le due cose sono sempre così strettamente collegate? E perché?

«Gavaglià, dicevo, è prigioniero del suo ruolo e dei suoi luoghi – anche dei suoi luoghi comuni, quelli con cui condisce la sua storia. L’idea di presentare il padre come un eroe del passato per vincere le elezioni non è sua: lui la accoglie, poi ci prende gusto, perché la convivenza forzata con il genitore gli consente di vendicarsi su di lui, sottilmente. Alle botte Franco Gavaglià preferisce lo stillicidio. Ma non c’è solo violenza nella sua idea di potere: c’è la capacità persuasiva della retorica, c’è la condiscendenza paternalistica, fatta di strette di mano compulsive, di ascolto, per quanto distratto, di sorrisi, di compiacenza; c’è anche la grassezza del suo corpo, che rimanda a una condizione di benessere raggiunto, di opulenza cittadina».

Leda, figlia del nostro candidato a sindaco e nipote del nonno violento, rappresenta il nuovo, l’unica che riesce ad ammansire l’uomo. Cosa raffigura il suo personaggio e perché diventa centrale nell’evoluzione della storia?

«Leda è disinteressata, irrequieta, buona, trasparente; sa di esserlo e le piace rimarcare questa differenza con il padre. Il suo sguardo sulle cose mette in discussione, con tatto e sagacia, la versione del genitore. È anche velleitaria, distratta e a volte un po’ superficiale, ma ricordiamoci che è la voce narrante di lui, il sindaco Gavaglià, a presentarcela come tale. Se la vediamo barcamenarsi tra nonno e padre è proprio perché spera di mediare, di evitare che tutto precipiti e che l’uno possa far del male all’altro. A differenza dei due, ha saputo staccarsi dal piccolo mondo da cui proviene, parte spesso per mete imprecisate e ritorna alla terra natale non perché sia imperativo per lei, ma quando vuole farlo. A renderla interessante e anche ambigua è il fatto che noi la conosciamo appunto solo attraverso la versione che ce ne dà il padre, il quale tende a sminuirne alcuni lati, a smontare attraverso l’ironia certe sue scelte».

La conca buia si figura come una sorta di santuario, un luogo di pace e silenzio nel quale il protagonista si rifugia ogni qual volta vuole scappare dal suo presente e dal suo passato. Perché, allora, torniamo sempre sui luoghi delle nostre radici, anche se ci hanno fatto del male?

«La conca con il suo buio ha protetto Gavaglià da bambino, come le notti di novilunio, o come i vicoli bui o i boschetti di piante fintamente vive della sua età adulta. Credo che sia il buio l’elemento più significativo, poco importa come e dove sia ottenuto. Il buio che cancella tutto il resto, e isola da ogni altra persona, soprattutto dalla minaccia del terribile padre, acuisce gli altri sensi, solletica l’immaginazione e sospende il tempo. Non so che cosa significhi questo, ma so che per Gavaglià è importante, anzi vitale – ma, come si è capito, Gavaglià è un tipo complesso, non una semplice caricatura».

(Alessandro Campaiola, Mar dei Sargassi)

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