C’è ne La Malora di Fenoglio quel passo da pelle d’oca che ancora resta ficcato nella testa nonostante gli anni trascorsi dalla prima lettura, quando il padrone di Agostino salta sulla paglia e sembra voler correre ad alzare le mani, prima di sostenere a gran voce che “le donne sono bestie”. Che non si possono afferrare perché non hanno la coda, ma se le si picchia forte in testa quelle sentono di certo. Eccola, dunque, quella ruvidezza di pensiero che ha la consistenza delle zolle vangate e lasciate seccare al sole, una convinzione di resistenza che sedimenta nella testa di chi la montagna, così come un qualsiasi luogo a margine, non si è limitato a viverlo ma si è imposto di domarlo. Un pensare che oggi forse ci appare piccolo, arcaico, primitivo ma di cui un’epoca è stata manifesto e che in questo La conca buia ritorna nelle vesti – forse sarebbe più consono dire nelle rughe – del padre di Franco Gavaglià. 

«Tuo nonno, tutto rughe e spigoli e bozzi com’era, sembrava vecchio anche da giovane. Ora che è davvero vecchio, si circonda di immaginette di santi e di luoghi sacri. Non so se gliele fornisca qualcuno o se ne abbia una scorta in qualche cassetto. Quando crede di non essere visto, se le porta alle labbra e le bacia a lungo – lo avrai notato anche tu. Non l’ho mai, mai visto baciare mia madre, ma ora scopro che i suoi baci hanno un che di languido, di enfatico, che mi fa rabbrividire.»

Golem di mani e piedi pesanti che paiono capaci di un solo gesto: «Botte, botte ovunque, a mano aperta, sonore e pungenti, o a pugno chiuso, sorde e cupe, o pizzichi brucianti, o certe martellate in punta di dita che sembravano volermi entrare nelle carni». Ci trovassimo al cospetto di una storia di buoni e cattivi come le fiabe consone ci hanno insegnato, verrebbe spontaneo relegarlo nel ruolo dei secondi, quest’uomo dai lineamenti deformati dall’ira, morsi cagneschi e un livore in continua eruzione ma nelle montagne di Morandini non c’è spazio per nessuna fiaba. Niente filastrocche né storielle della buonanotte quando si tratta di fronteggiare le stagioni, ce l’ha insegnato fin dagli albori l’autore qui presente, da quel Neve, cane, piede (…) che chi ha letto non può che ricordare con profonda ammirazione. C’è l’ha spiegato senza troppi giri di parole, che la terra dove è nato e di cui ne ha fatto poetica, non è luogo da prender sottogamba, che in questi avvallamenti ci si può morire e la fatica a volte può esser l’unica compagna, «la montagna, nera, livida, imputridita dalle piogge, tornava a tormentarmi».

“Questa è una terra di cose semplici, cose che vanno fatte prima che faccia buio”, mi torna in mente la frase di un’amica che conobbi in zone simili a quelle qui descritte e che proprio tra queste vallate decise di piantar dimora. Cose semplici, prima che faccia buio
Sarà bene però chiarirlo fin da subito: siamo ben lontani dalle crudezze allucinate delle peregrinazioni solitarie di Adelmo Farandola, la Covignasca qui presente è un paese con tutti i crismi e gli accorgimenti del nostro presente. Un borghetto con i suoi vicoletti caratteristici che nei mesi più miti si addobbano di chincaglierie per turisti, con la sua giunta comunale di stramboni e personaggi di contorno (il fotografo Marchisio e il pittore Presciutti regalano siparietti neppur troppo grotteschi) che non tradiscono, bensì valorizzano, la vena ironica dell’autore.
Si potrebbe quindi parlare di un romanzo che si sviluppa per contrapposizioni: da un lato la montagna brulla, il suo stigma passato che qui ritorna nel ricordo di giornate trascorse ad assecondare i voleri del nonno per non pigliar botte, dall’altro, la vita odierna di questa triade familiare – nonno, padre, figlia – oggi riunita e ricomposta per questioni di mera convenienza. A Covignasca è infatti tempo di campagna elettorale e Franco, sindaco attualmente in carica, con un fisico ormai rammollito e qualche fantasma sul groppone, teme la mancata riconferma. Per riconquistare la fiducia dei conterranei serve una figura che ne esalti l’antica autenticità paesana, un predatore che ha saputo piegare la terra al suo volere, e chi meglio di suo padre può incarnare tali valori? 
Da questo presupposto partirà un discorso generazionale che l’autore gestisce con la naturalezza di una lettera lasciata ai posteri. In questa genealogia del disincanto non si salva nessuno: se alle ruvidezze del nonno si frappongono gli ideali ingannevoli del figlio, neppure Leda, con le sue utopiche ideologie e fughe oltralpe, sembra aver chiara la direzione da perseguire.
In questo mi sento di ringraziare l’autore che non si è limitato a consegnarci il solito protagonista lagnoso e compassionevole, Franco Gavaglià è un sindaco obliquo ed egoista che non si fa scrupoli a stordire il padre di prescrizioni mediche e sfruttarne i resti di ciò che è stato pur di vincere le elezioni. Un personaggio a tratti respingente e di cui si riesce a giustificare solo una parte dell’odio e del bisogno di rivalsa che prova verso il padre e la comunità tutta. 

«Per un secondo immagino una specie di cospirazione di vecchi tutti uguali, scavati da rughe, dalla faccia di letame incrostato per via di un’intera vita trascorsa sotto il sole, vecchi dagli occhi cerulei che non hanno mai sorriso e si sono rimpiccioliti dopo i settant’anni, cappelli calcati sulla fronte a manate, pochi denti storti, una propensione per il vino nero e aspro: una congiura di quei coboldi contro la generazione successiva, che ha tentato di scalzarli e che loro hanno combattuto da sempre a schiaffi e bastonate e musi lunghi.»

Colpevoli e complici allo stesso tempo, nel palcoscenico imbastito da Morandini si dipana una storia dallo spessore umano inaspettato e che avrebbe rischiato di ridursi all’ennesimo resoconto di “vita difficile in una famiglia difficile sperduta in una terra difficile” se non fosse stata gestita con tale lealtà d’intenzioni. In questo, La conca buia si può quindi considerare un’evoluzione matura di un percorso autoriale che non dimentica le sue origini ma neppure si spaventa a sperimentarne nuove diramazioni.
Diramazioni che si riscontrano in una scrittura dinamica, capace di alternare dialoghi agrodolci a struggenti squarci di vita agra montanara, attraverso una penna che non si fa scrupoli a scarnificare le strutture sintattiche, sporcandosi le mani negli umori e nelle secrezioni più acide di corpi e materia, rivangando nello sterco più maleodorante dell’animo umano, per riportarci nel giro di un paragrafo a passaggi di una bellezza autentica che nulla ha da spartire con la patinata bucolicità di montagne ben più note. 

«Durante quell’estate tornai per conto mio altre volte in quella conca nascosta, quando sapevo che papà non mi avrebbe cercato – o ancora, quando dovevo sfuggire alla presa delle sue dita prive di unghie. Entravo nella valletta muta, e sentivo solo i tonfi ritmati del mio cuore.»

La traiettoria stilistica dell’autore ricorda il volo di un rapace, si fionda a valle con gli artigli ben spianati per afferrare squarci di una crudezza ferale in cui gli umani si muovono un passo dietro le bestie, per poi tornare a planare altissima, fin negli anfratti più intimi di quella conca i cui silenzi appaiono come l’unico antidoto alle meschinità di questo campionario di sciagurati.
Questa è la montagna di Morandini, tra brutture ambientaliste e un becero sfruttamento territoriale da cui nessuno può uscire illeso e neppure assolto. Un romanzo estremamente contemporaneo del cui sguardo solo il tempo sarà in grado di storicizzare la reale portata ma di cui nessuno, oggi, dovrebbe ignorarne l’effettiva importanza.

(Stefano Bonazzi, Satisfiction)

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