Le montagne di Claudio Morandini e Paolo Cognetti

Il desiderio di esplorare l’altitudine, di raggiungere cime sempre più elevate è da sempre connaturato all’uomo, una sfida atavica con la natura che possiede una forte componente simbolico-psicologica. Arrampicarsi verso l’alto, in un ambiente che si fa progressivamente più inospitale, rappresenta in qualche modo una fuga dalla società, da una folla in cui la nostra identità tende a disperdersi, verso un isolamento in cui invece ritrovarsi. 
Laddove la città è il luogo della massa, la montagna è dunque la dimensione dell’individuo. A migliaia di metri d’altezza non solo l’aria ma anche l’anima si fa più rarefatta, sbiadiscono le maschere pirandelliane a cui la vita di comunità ci costringe ed emergono gli aspetti più intimi di noi stessi.
Molti appassionati amano ripeterlo: la montagna ci ricongiunge con ciò che siamo veramente. Eppure questo ricongiungersi non è solo bellezza, anzi è un processo difficile in cui entrano in gioco tantissime ombre. Chiunque, messo di fronte a se stesso, finisce per dover fare i conti con i propri fantasmi, con tutto ciò che ha rimosso. E come ogni psicanalista o psicanalizzato sa bene, il centro nevralgico dei nostri traumi e dei conseguenti lati oscuri è la sfera familiare. 

La conca buia di Claudio Morandini e Giù nella valle di Paolo Cognetti, usciti lo scorso ottobre a pochi giorni di distanza – per Edizioni Nottetempo il primo, per Einaudi il secondo –, raccontano pur con toni molto diversi proprio questo aspetto della montagna, il suo essere imperscrutabile custode di un vissuto familiare irrisolto e rimasto lì per anni, come ibernato. Solo scegliendo di “salire” sarà possibile affrontarlo e superarlo.
I protagonisti di Cognetti sono due fratelli, Luigi e Alfredo, che si ritrovano dopo anni nella Valsesia, sul Monte Rosa, in seguito all’improvvisa morte del padre. Nella casa dove sono cresciuti, il genitore aveva piantato per loro due alberi, già intuendo la profonda diversità dei ragazzi: un larice per Alfredo, robusto ma sostanzialmente fragile, un abete per Luigi, più resistente ma anche meno bisognoso di sole. Alfredo non si è mai mosso dalla valle, è sposato con Betta e aspettano una bambina. Luigi invece ha fatto diversi lavori, ha girato il mondo, è stato anche in prigione. La loro valle però sta per cambiare per via dell’imminente installazione di una struttura turistica, il che significa sì più lavoro e denaro per tutti, ma anche la certezza di un sovraffollamento quasi “cittadino”. Se Alfredo ha bisogno e anzi anela a quella zona di comfort sociale, Luigi sa che non potrebbe mai sopravvivere a quella trasformazione. Lui è in contatto costante coi suoi fantasmi e anche se questo lo mette in pericolo non ha intenzione di smettere. Resta allora poco tempo ai due fratelli per capirsi, rientrare in contatto con le loro radici prima che tutto cambi, finché la montagna è ancora montagna nel suo senso più profondo.
Ne La conca buia l’epicità nostrana di Cognetti lascia il posto a un’ironia feroce, quasi disperata, incarnata dal protagonista del romanzo, il sindaco Franco Gavaglià, fuggito dalla sua infanzia trascorsa in alta montagna – qui i nomi dei comuni sono di fantasia – e dalle grinfie di un padre grottescamente tirannico. La sua è una fuga a metà, quasi da vigliacco, ben diversa da quella virile del Luigi cognettiano: Gavaglià non si allontana dalla montagna, si limita a lasciare la zona più isolata dov’è cresciuto per accomodarsi nei paesi più in basso. Desidera dunque una vita solo un po’ più cittadina, senza il coraggio di affrontare la metropoli vera e propria. Le dimensioni ridotte di questo tipo di comunità gli permettono di diventare un leader di dimensioni altrettanto ridotte, un piccolo politico, un sindachino, a capo di un buffonesco staff di vice e collaboratori assortiti. Gavaglià si adatta facilmente ai suoi piccoli privilegi, non fa sport, si abbuffa, ingrassa. In vista delle imminenti elezioni decide di portare in giro per comizi il vecchio, ma ancora temuto, padre allo scopo di guadagnare i voti dei “montanari puri”. Gavaglià si comporta come un figlio ferito e vendicativo: preleva il genitore letteralmente di peso, imbottendolo di farmaci per sedarlo, lo trascina “giù” in paese portandolo nel suo campo da gioco e trasformandolo in una caricatura di se stesso, senza mai mostrare la volontà di affrontarlo davvero. Ancora una volta, i traumi irrisolti non si possono sciogliere in basso, per un confronto reale bisogna tornare su, in alto. In Morandini l’alto è rappresentato dalla conca buia del titolo, rifugio mistico e immaginifico del Gavaglià bambino, una zona su cui il sole non batte mai, a nessuna ora del giorno, in nessuna stagione. Un luogo che non ha nulla di speciale, se non per Franco e per suo padre, l’unico posto in cui i due potranno in qualche modo dare sfogo alle tempeste accumulate in anni di rancore.
Per Cognetti, come avevamo già visto nel premiato Le otto montagne, l’altitudine è la ricerca inquieta di un vissuto che pare esserci sfuggito, una fotografia stinta che si ha bisogno di guardare e riguardare per riconoscere i volti. Per Morandini è invece un trauma rifiutato, disprezzato perfino, a cui non si ha mai voglia di tornare ma da cui non ci si riesce ad allontanare troppo.

I due romanzi hanno in comune la fatica del percorso, il cambiamento profondo che esso implica. Il fatto che i protagonisti siano tutti cresciuti in montagna è in un certo senso solo un elemento che rafforza il simbolismo di queste storie. Al lettore non serve aver trascorso l’infanzia sulle Alpi per capire quanto faticoso possa essere rimettersi a fuoco, ritrovare se stessi, perdonarsi e perdonare. Una fatica che non tutti hanno la forza o il coraggio di affrontare, tant’è che c’è chi rinuncia, chi preferisce zittire i traumi, lasciarli sedimentare anche a costo poi di subire tutte quelle nevrosi che, guarda caso, sono un tratto tipico della vita di città. Il già citato tema della fuga può allora essere sviscerato in entrambe le direzioni: c’è chi va verso l’alto per ricordare, ma anche chi si sposta – e resta – in basso per dimenticare. 
Siamo insomma ben lontani dalla visione idilliaca che spesso si associa alla montagna e ai suoi paesaggi. Le Alpi di Morandini e Cognetti non sono le stesse di Heidi, non sono un luogo felice di cui avere nostalgia, ma un necessario e faticoso passaggio nella costruzione di sé. Il confronto con l’oscurità che la montagna esige non è e non può mai essere indolore. La scalata toglie il respiro e comporta la necessità di un cambio di prospettiva. Luigi, il fratello-abete di Giù nella valle, poco prima di compiere l’azione estrema che lo costringerà nuovamente a sparire, decide di abbattere l’albero che lo rappresenta. Un gesto che sottolinea la sua non-appartenenza a una montagna e a una famiglia che si stanno sempre più “cittadinizzando”. Franco Gavaglià ha invece bisogno di ritornare nella conca buia affinché si compia definitivamente, anche se in ritardo, il rito edipico dell’omicidio del padre. La stessa conca però lo accoglierà a braccia tutt’altro che aperte e non renderà la vita facile a chi si è costruito tutt’altra identità – e tutt’altra fisicità – lontano da lì, alla luce del sole.

«Per me venire qui è stato come scalare la montagna più alta del mondo», cantava tanti anni fa Luigi Tenco, uno che di fantasmi interiori ne aveva certamente tanti. Cognetti e Morandini sembrano ribadirci che tutti abbiamo una “montagna più alta del mondo” su cui prima o poi siamo chiamati a salire. Possiamo anche scegliere di tapparci le orecchie, di far finta di niente ma, come c’insegnano da sempre i libri, se un eroe rinuncia all’avventura non c’è nessuna storia da raccontare.

(Armando Vertorano, Snaporaz, 13 nov 2023)

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