Il peso del tempo anteriore: ‘La conca buia’ di Claudio Morandini

Nella speranza di essere riconfermato sindaco, Franco Gavaglià prova a conquistare l’elettorato con la celebrazione della tradizione attraverso un “eroe della terra”: suo padre. L’elogio è segretamente ironico: quel vecchio ormai svuotato, imprigionato in un appartamento cittadino di cui rifiuta ogni comfort, ormai privato del suo predominio sulle persone e le cose dell’alpe, in passato era capace di ogni efferatezza verso suo figlio e sua moglie, dominato da un furore cieco e inestinguibile. Ammansito dai sedativi per seguirlo in campagna elettorale, è come suo figlio lo vuole, “cavo e leggero”, inoffensivo.
Franco Gavaglià è dominato per anni dai fantasmi del proprio passato negli incubi che evocano il puzzo dell’alpe che ha accompagnato tutta la sua infanzia – il miscuglio di “sterco di vacca, latte, acqua stagnante, pelo di cane, sudore d’uomo e di bestia, deposito di vino e mele vecchie” –; il terrore di un padre che lo rincorreva con il forcone per cercare di ucciderlo; il senso di colpa per non aver protetto sua madre dalle vessazioni e dalle umiliazioni continue. Riesce a mettere da parte il trauma infantile per allestire una farsa a cui prendono parte amici, membri del partito, concittadini. Attraverso le vicende del suo protagonista, Claudio Morandini compie una feroce critica al mondo politico, descritto tra tortuosità e scorciatoie, tra cui quella di recitare l’amore per la propria terra, quella stessa terra che “ci ha fatto sanguinare e disperare e ha ucciso nostra madre e reso folle nostro padre”.
Strutturato come un lungo appello alla figlia Leda, il romanzo si regge sull’alternanza tra passato e presente, indaga la relazione tra i padri e i figli attraverso l’indagine della cupa età dell’infanzia del protagonista, dominato da spettri personali e da quelli di suo padre da bambino, affrontati calandosi nella dimensione paterna durante la visita a un cimitero abbandonato tra immagini ingiallite di vecchie lapidi. “[…] quanto erano ferine le facce del padre di mio nonno, o degli antenati precedenti all’invenzione della fotografia: facce che erano musi, bocche che non avevano mai imparato a parlare, piante dei piedi sempre scalzi dure e nere come suole, ossa storte, lineamenti a vanvera, età indefinibili, indistinguibili i sessi nella vita comune”.
Grazie alle sollecitazioni di una figlia dallo sguardo illuminato, sognatrice, pronta a battersi contro le iniquità, Franco si confronta con aspetti di un tempo remoto che evoca interrogativi sul peso del compromesso, sullo smarrimento di sé nel rendersi artefice di vergognosi paradossi, sul senso della fede sulla base di quanto osservato nell’infanzia, sulla necessità di identificare un linguaggio nuovo per fare i conti con i traumi, le colpe, le nuove consapevolezze nel presente.
La prosa ricca, le insistenze descrittive che evocano un dolore radicato, gli slanci lirici che celebrano il grottesco insito nell’ordinario, esaltano un paesaggio fisico e interiore dall’incanto tetro, che abbaglia e ferisce: la trasposizione in una natura indifferente alle inquietudini di chi ne osserva il paesaggio.
“Ricordo bene, questo sì, il buio denso delle notti di novilunio. Si usciva dalla baita, ed era come buttarsi in un abisso vuoto. Si percepivano le cose attorno, si sentivano vibrare, ma si dubitava della loro esistenza. Si brancolava nel prato, temendo inciampi e insidie, e ogni passo sembrava lentissimo, le distanze duplicate. Ai miei non piaceva che andassi a spasso in quelle notti, senza lume poi, così aspettavo che crollassero entrambi dalla stanchezza, e solo quando li sentivo russare e gemere nel sonno mi muovevo. Il mondo mi sembrava più terso, meno putrido, quando il buio totale lo avvolgeva”.
L’abbandono notturno della baita e, metaforicamente, della famiglia, misura l’incertezza nel brancolare nell’ignoto e, al contempo la percezione, di lambire una verità necessaria, emanciparsi dall’insania famigliare. La valenza simbolica dei luoghi, da sempre indagata nella produzione letteraria di Claudio Morandini, è riconoscibile anche nella raffigurazione di un’immobilità apparente come preludio al dramma.
“C’è una conca mai toccata dal sole, nemmeno d’estate, al di là di un fianco di montagna che è tutto un precipitare di pietre e sedimenti. La scoprii da bambino un pomeriggio, mentre rincorrevo una capra che non voleva farsi ricondurre al recinto assieme alle altre. Arrampicandomi a fatica dietro quella maledetta cornuta, che saltellava sfrontata tra le schegge di rocce sempre più aguzze, arrivai appunto a quel fianco di morte, ripido e aspro, e lo seguii, penetrando in una stretta valletta buia, che la capra aveva già percorsa tutta in pochi balzi”.
Il continuo cambio di registro, da intimistico a tragicomico, è funzionale all’esplorazione delle contraddizioni alla base di un dolore radicato, sfociato nel cinismo. Prendono forma sulla pagina vicende e personaggi al limite del surreale: un bizzarro campionario umano, tra pittori che tributano la vita rurale in quadri pacchiani che occupano le pareti di tutte le famiglie della vallata, poeti che celebrano la centralità della figura paterna, malinconici esaltati del mondo celtico, e fotografi fieri del portfolio con gigantografie di ani.
“Per un secondo immagino una cospirazione di vecchi tutti uguali, scavati da rughe, dalla faccia di letame incrostato per via di un’intera vita trascorsa sotto il sole, vecchi dagli occhi cerulei che non hanno mai sorriso e si sono rimpiccioliti dopo i settant’anni, cappelli calcati sulla fronte a manate, pochi denti storti, una propensione per il vino nero e aspro: una congiura di quei coboldi contro la generazione successiva, che ha tentato di scalzarli e che loro hanno combattuto da sempre a schiaffi e bastonate e musi lunghi”.
Ritrarre una comunità abbagliata dal patriottismo e dall’idea di tradizione esalta il paradosso identitario, l’ipocrisia del professare fedeltà, trasparenza ed equità. Palesa le storture di un mondo politico spregiudicato nella metafora di una grettezza indagata nel disastro di una realtà senza salvezza. Permane un luogo segreto a emblema della cupezza del passato, è il riparo infantile dall’insania di un padre, è il teatro di un dramma dai risvolti inattesi.
Con La conca buia (nottetempo) Claudio Morandini consegna un elogio dell’imperfezione e della miseria umana, indaga il peso del tempo anteriore, la follia dei padri e le nuove forme di violenza dei figli, la distruzione di ogni legame nell’offuscamento dato da un prestigio vano.

(Alice Pisu, Poetarum Silva)

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