C’era una volta la commedia all’italiana. Faceva ridere, ma era amara; era divertente, ma ben costruita; era recitata da veri attori. Poi sono arrivati i comici che e hanno trasformato il genere in assemblaggi di sketch con trame inesistenti: non si vedono più pellicole come Il sorpasso o Un borghese piccolo piccolo. In compenso, lo spirito corrosivo della gloriosa commedia all’italiana ogni tanto risuscita in qualche romanzo ben scritto – forse perché gli autori sono cresciuti vedendo quei film. Uno di questi scrittori è Claudio Morandini, e il suo ultimo romanzo, La conca buia, rientra perfettamente nel genere. Ti verrebbe da dire “vogliamo il film”, poi ti rendi conto che lo dirigerebbe Sorrentino e il protagonista sarebbe interpretato dall’immancabile Servillo, e no, non ci saremmo proprio per niente. Teniamoci il romanzo, intanto. Fondamentalmente è la storia della famiglia Cavaglià, con tre generazioni rappresentate da tre personaggi. Abbiamo il nonno, un vecchio montanaro violento, brutale, avido, figlio della miseria di un ambiente duro e avaro – quasi un demone della montagna, che picchia moglie e figlio per poi intrattenersi per ore col prete del villaggio e immancabilmente tornare a maltrattare famigliari e bestie. Poi c’è Franco, il figlio, tutt’altra pasta, prima assicuratore poi politico locale e addirittura sindaco del villaggio: un vero impicciambroglia (come li chiamano nel basso Lazio) che non si ferma davanti a niente per conservare la poltrona, perfetto rappresentante dei politici d’oggi (giustamente Morandini lo assegna a un’anonima lista civica, come a dire che il colore politico è del tutto irrilevante). Infine Leda, la figlia di Franco, sofisticata, perennemente in viaggio verso Berlino e altre capitali estere, gattara, single, autentica radical chic (per parlare di lei l’inglese è d’obbligo). La storia è narrata da Franco che si rivolge alla figlia, e comincia così: “Le botte che mi dava mio padre, senza che sapessi perché”. A partire da qui abbiamo il ritratto di una famiglia disfunzionale (non sarà un caso se Franco è divorziato e la figlia nubile), che non è difficile leggere anche in chiave allegorica: il selvatico nonno incarna la montagna stessa. Oggi ci viene servita come commodity, come spazio ludico tra sci ed escursioni (possibilmente non più lunghe di un’ora), come luogo di sapori autentici e antiche tradizioni – ma fino alla seconda metà del novecento la montagna era miseria, fame, disgrazie, una vita grama, potremmo dire il sud del nord. Morandini non aderisce al marketing della montagna, alla rimozione collettiva del suo lato oscuro: ce la fa vedere senza sconti e senza PhotoShop. Franco, che alla montagna ha rivolto le spalle, andando a studiare in una città di pianura e poi dedicandosi a tutt’altra attività rispetto all’agricoltura di sopravvivenza di suo padre, incarna la generazione uscita dalla miseria arrangiandosi e ove occorre tirando a fregare (una specie di Alberto Sordi alpino); mentre Leda è la terza generazione che gode dei soldi ammucchiati dalla seconda, ma poi ha scrupoli moralistici, e riscopre la montagna in chiave estetizzante, senza volerne vedere il lato oscuro. Potremmo dire che dei tre non si salva nessuno, anche se Franco, se non altro, sembra più lucido della figlia e meno bestiale del padre. Comunque, questi tre personaggi così diversi dovranno interagire perché è tempo di elezioni, e il sindaco in carica se la dovrà vedere col candidato dell’opposizione, Ursini, quantomai agguerrito. Per tener testa al suo concorrente, Franco si fa convincere a girare per i paesi accompagnato da suo padre, per dimostrare alla gente del posto di essere uno di loro, un autentico montanaro, un autoctono – nonostante detesti suo padre e il mondo dal quale è scaturito. Non è difficile immaginare che far convivere e addirittura cooperare le tre generazioni della famiglia Cavaglià non sarà una passeggiata; la via verso la rielezione si rivelerà accidentata, costellata di trappole e spiacevolissime sorprese. Morandini riesce a farcela percorrere insieme ai tre personaggi, e a uno stuolo di credibilissimi comprimari (inclusi gli amanti della cultura celtica), in un crescendo di episodi grotteschi, con scrittura sempre misurata e tagliente, come in questo passaggio: “A mio padre sono sempre piaciute le sfilate e le cerimonie religiose. La sua devozione distorta e involuta, per me incomprensibile, lo spingeva a cercare la compagnia dei preti e a strusciarsi alle loro gonne sin dai tempi di Don Breccia. Non so che cosa lo attiri nella religione, né di cosa si nutra la sua fede, sulla quale con me non si è mai confidato. Forse – azzardo – gli piace l’idea che il mondo sia nostro e che possiamo farci quel che ci pare perché Dio ha voluto così, o il pensiero che lo stesso Dio potrebbe aver concesso a lui, proprio a lui, un’autorità patriarcale su ognuno di noi.”

(Umberto Rossi, Blow Up, novembre 2023)

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