IN MONTAGNA SI “STRAPARLA DI ‘PAESAGGI INCONTAMINATI’ PROPRIO MENTRE SI METTONO IN MOTO LE RUSPE”. UN VIAGGIO TRA LE PAROLE DELLO SCRITTORE CLAUDIO MORANDINI

Intervista a Claudio Morandini, scrittore molto appartato originario di Aosta, vincitore del premio Elsa Morante con “Neve piede cane”. Uno scrittore attento a limare e a ripensare la pagina, che ha recentemente pubblicato “La conca buia”, romanzo segnato da un sarcasmo fortissimo e da una viva capacità polemica nei confronti di qualsiasi stereotipo che sia legato alla estetica della montagna

Di Camilla Valletti | 17 aprile

Claudio Morandini è uno scrittore appartato, nato ad Aosta, e forse per questa ragione, molto critico nei confronti di un certo modo di intendere la montagna. Il romanzo che lo ha fatto conoscere s’intitola “Neve piede cane” e fu pubblicato nel 2015 e poi ripreso da Bompiani. Un libro a cui fu assegnato il premio Elsa Morante, non a caso, in quando l’habitat narrativo è improntato alla solitudine e al soliloquio, ricordando, per certi aspetti, il celebre “L’isola di Arturo”, pur in un ambiente montano. E’ uno scrittore attento a limare, a ripensare la pagina, con una severità quasi flaubertiana. Di recente ha pubblicato “La conca buia” per nottetempo, un romanzo segnato da un sarcasmo fortissimo e da una viva capacità polemica nei confronti di qualsiasi stereotipo che sia legato alla estetica della montagna.

Difficile, molto difficile, collocare i suoi libri nelle correnti della narrativa italiana recente. E altrettanto complesso appare il rapporto con l’ambiente, in particolare la montagna, che permea la sua opera. Sembra quasi uno spazio vuoto dove le persone, gli sparuti abitanti, finiscono per perdere la testa. C’è quasi un tratto espressionistico nei suoi personaggi, siano essi animali, adulti e bambini…

È vero, i miei personaggi vivono tutti un rapporto piuttosto contrastato con l’ambiente. Chi è nato in un certo luogo tende a sentirsi imprigionato, a non staccarsi (come nell’Angelo sterminatore di Buñuel, o, se vogliamo rimanere in ambito alpino, come accade alla protagonista de La parete di Haushofer); chi arriva da fuori, invece, è prima rifiutato, poi ci si impantana, senza mai sentirsi accettato. C’è chi reagisce muovendosi come le belve in gabbia, chi cade in una sorta di torpore, in cui le paure sembrano diventare concrete… le reazioni diventano esasperate, i corpi si incurvano, una forza di gravità più potente che altrove sembra schiacciare tutti al suolo… Qui riconosco di essere debitore nei confronti di Ramuz, che non è il bucolico testimone della vita negli alpeggi (come talvolta si tende a banalizzarlo), ma l’aedo di drammi profondi e incomprensibili, di una natura spaventosa, instabile ed enigmatica, di una realtà in cui i confini tra veglia e incubo, vita e morte tendono a confondersi.
A volte i miei personaggi mi fanno pensare a dei naufraghi, in solitaria o a piccoli gruppi: le montagne sono onde di un mare in tempesta incredibilmente lento, i villaggi sono zattere. Li osservo da lontano, con un binocolo, e provo a descrivere i loro movimenti, a immaginare i loro pensieri. Talvolta azzardo un avvicinamento. Sono figure tragicomiche, forse soprattutto comiche, disperatamente, ostinatamente comiche: un risultato inevitabile, quando si racconta l’inadeguatezza dell’uomo di fronte a qualcosa di troppo grande, alieno e inafferrabile.

Quanto ai miei libri in generale, anche se so bene che questi sono tempi poco propizi alla letteratura di ricerca, rivendico la libertà di sperimentare ogni volta forme e situazioni, e di non rinunciare alle opportunità offerte dalla straordinaria flessibilità del romanzo. Anche i miei libri di ispirazione alpina (chiamiamoli così per comodità), che pure sono i meno “sperimentali” tra quelli che vado scrivendo, non rientrano nel genere (o nel sottogenere) se non con parecchi distinguo, che di sicuro verranno fuori in questa conversazione.

Il suo ultimo lavoro “La conca buia” è un libro che si apre anche all’ironia per demistificare una serie di falsi atteggiamenti e di sfruttamento della montagna a fini autopromozionali.

Essendo nato tra le Alpi, ho potuto saggiare parecchie volte la pervasiva vischiosità della retorica legata alla montagna, e allo stesso tempo misurare l’inconsistenza delle parole, l’assurdità dei cliché. In queste narrazioni la montagna è descritta come buona, bella, adatta all’uomo, anzi creata per l’uomo, che immerso in essa non potrà che uscirne migliore. È una retorica che non teme il paradosso: straparla per esempio di “paesaggi incontaminati” proprio mentre si mettono in moto le ruspe.

Oltre al protagonista, attraversato da ogni sorta di ambiguità, compaiono la figura di Ruben Presciutti, una sorta di falso montanaro piacione, e poi ambientalisti fanatici, cacciatori spaesati e cultori del mondo celtico. Da dove ha tratto queste figure? 

Il sottobosco della provincia pullula di queste figurette. Non è difficile notarle, basta guardarsi attorno, capitare in qualche sagra, sfogliare le pagine dei giornali locali, rallentare in prossimità dei dehors, repertoriare un tot di eccentricità pittoresche, e, al momento della scrittura, esasperare giusto un pochino i tratti. Alcuni me li sono inventati io, ben consapevole che nella realtà ne avrei trovati di ancora più bizzarri. Sembrano tutti alla ricerca di un’identità marcata e riconoscibile: “Ehi, ci sono anch’io, ci siamo anche noi, guardate qua, da questa parte, eccoci!” Si aggirano in gruppo per non rischiare di passare inosservati. A loro Franco Gavaglià sa come rivolgersi: li ascolta con condiscendenza, ne solletica la vanità, il bisogno di conferme, promette rimanendo nel vago: e girato l’angolo se ne dimenticherà.

Il suo è anche un romanzo politico nel senso che emerge chiara la sua volontà di svelare i meccanismi di una falsa propaganda ambientalista? Quali sono, secondo lei, i limiti di certe narrazioni legate all’intangibilità della natura?

Io ho il massimo rispetto per l’operato degli ambientalisti veri. Mi turba e mi irrita l’uso spregiudicato che altri fanno dello stesso lessico degli ambientalisti quando si riferiscono alla montagna o alla natura in generale. Come dicevo, parlare di “ambiente incontaminato” per decantare la montagna, o qualunque altro luogo sulla terra, è uno di quei cliché comodi e ormai privi di senso, buono per i dépliant e le campagne elettorali. Di incontaminato non c’è proprio più nulla, in montagna, e da un pezzo, come sa bene chi, amando la montagna, rimane sgomento di fronte all’accelerazione dei cambiamenti, alla trasformazione, allo sbriciolamento progressivo.
Quanto al colore satirico del mio romanzo, non è legato all’attualità o a un contesto particolare. Non potrebbe esserlo, dal momento che tra la scrittura della prima pagina e l’ultima revisione sono passati circa dieci anni, un tempo che renderebbe irrimediabilmente obsoleta qualunque critica a fatti o persone della contemporaneità. Diciamo piuttosto che vi sono messi in caricatura certi vizi permanenti, come il provincialismo, il bigottismo melenso, l’opportunismo, il paternalismo, la neofobia, che, va da sé, non affliggono solo chi vive tra le montagne. Il mio intento con La conca buia era un altro: seguire una storia tragicomica di conflitti, di tensioni,
amplificata da netti contrasti geografici. La satira, ripeto, è uno dei colori, tra diversi altri.

L’ambiente alpino dei miei libri vuole evitare ogni edulcorazione, ogni interpretazione. È pietra, roccia, forza di gravità, profondità, caverne, cunicoli, ombre, buio. È un pianeta sconosciuto. Vorrei che la montagna (la
mia, almeno) sfuggisse a ogni tentativo di lettura allegorica: non significa altro, non rimanda ad altro, è solo quello che è. Costruirci sopra allegorie è una debolezza umana (comprensibile, se vogliamo, ma fuorviante), dovuta a una specie di pareidolia, che ci rassicura, ci rende familiare e comprensibile ciò che non lo è, e riduce tutto a una dimensione umana, domestica, didascalica, convenzionale. Non sono più i tempi del Monte Ventoso di Petrarca, e nemmeno di Monti Analoghi alla Daumal – non per me, almeno.

La figura di Leda è forse quella in cui si può pensare di riporre una qualche speranza. Una ragazza consapevole della necessità di trovare un accordo con un mondo che oggi si direbbe fortemente patriarcale. E’ così? 

Leda è una figura anomala, e proprio per questo necessaria, in quel mondo soffocante, patriarcale anche quando non è violento. Intanto esprime una bontà disinteressata, a differenza del padre Franco, che quando fa del bene sembra nascondere sempre un secondo fine; poi sa esercitare un’intelligenza critica, sa osservare le cose da un punto di vista laterale (è giovane in un mondo di persone di mezza età e di vecchi, è donna in un mondo a misura di maschio). Anche Franco saprebbe guardare il mondo con quello sguardo critico, e in effetti lo fa spesso, nella dimensione privata della “confessione” alla figlia: ma il suo ruolo “politico” glielo vieta, lo costringe a esprimersi per slogan, a cercare facili scorciatoie; e una sorta di pigrizia gli impedisce di uscire dal confortante stereotipo dell’uomo pubblico di provincia, in cui ha imparato a sguazzare.

Il rapporto di Leda con il padre Franco è interessante: Leda crede a quanto le dice il padre, ma con riserva; non mette in dubbio la sostanza, ma ritiene che il padre sia iperbolico (quando parla delle angherie subite
da bambino, per esempio). O forse è lui, Franco, a dubitare che Leda possa capirlo e gli creda fino in fondo, e dà della scettica e dell’ingenua alla figlia a prescindere da quanto pensa lei. Chi lo sa: noi abbiamo solo la versione di lui, possiamo esercitare a nostra volta il dubbio solo su ciò che lui riporta. Per natura, Leda prova a conciliare gli opposti, ad appianare i contrasti. Capisce di essere “usata” dal padre, nel ricucire un rapporto con il nonno durante la campagna elettorale, e sa che, accettando di aiutare il papà sindaco, entrerà in un territorio scivoloso, eticamente opaco. Probabilmente ritiene di poter gestire la situazione senza venir meno ai suoi principi, o forse ne sottovaluta la complessa ambiguità. Secondo me la forza di Leda sta soprattutto nel sapersi allontanare dai luoghi in cui è nata: di tutta la famiglia è l’unica a valicare i confini del comune e a viaggiare all’estero. Certo, torna sempre: ma poi riparte, mossa da un’irrequietezza che Franco non capisce e forse invidia un po’. Sa andare oltre l’orizzonte  angusto delle montagne. In questo è forse un po’ velleitaria, ma che importa? Il suo rapporto con la natura è sereno, epicureo, al punto che potrebbe sembrare un tantino superficiale: non c’è sofferenza nel suo aggirarsi in montagna (c’è insofferenza, a lungo andare, per i luoghi troppo limitati e banali, ma questa è un’altra storia).

Ci racconti come nasce un personaggio come il Boia dell’Alpe, il padre padrone del romanzo, lui sì autentico montanaro intriso di secolare violenza.

Si è imposto da sé, in un certo senso. Il vecchio Gavaglià è nato, circa dieci anni fa se non di più, come la versione esasperata ed “espressionistica” (ha ragione, è così) del montanaro à l’ancienne: ma per fortuna, con gli anni, la figura ha acquisito una forza che lo ha reso diverso dalla caricatura di uno dei protagonisti della retorica tradizionale di montagna, al punto che non credo possa rappresentare l’emblema di una vita arcaica fatta di violenza e sopraffazione – è sé stesso, e basta. Finché ha potuto, Gavaglià ha esercitato sull’ambiente, sulle persone e sugli animali un potere primordiale, barbarico, assurdamente violento. Non parla quasi mai perché non ha bisogno di giustificare i suoi atti. I suoi orizzonti si sono limitati all’alpeggio e alla cerchia familiare, ma lì, entro quei limiti, la sua è stata una tirannide spietata, totale. Ha imparato a dominare il ristretto ambiente in cui è nato, ma vi è rimasto prigioniero, e ha condannato alla stessa pena tutti quelli che gli stanno attorno. Nel suo elementare sistema di valori, la compassione è una debolezza, il perdono è contro natura. Crede che Dio (un Dio altrettanto tirannico, ma su scala assai più grande) voglia questo da lui, che la montagna sia stata creata per essere affidata a persone come lui, e che darle requie sarebbe una colpa irreparabile. Anche in questo caso, noi conosciamo gli eccessi del vecchio solo attraverso la testimonianza di Franco, il figlio sindaco, e in un certo senso dobbiamo fidarci di Franco, che sappiamo essere bravo nel giocare con le parole per ottenere determinati vantaggi: ma non penso che si possa mettere in dubbio quanto questi ha subito da bambino, quanto ha visto compiere ferocemente dal padre ai danni della madre o di chiunque altro.

Lei non si rifà mai e geografie alpine riconoscibili, perché?

Quella che si va definendo libro dopo libro è una geografia mia, mentale, anche onirica, che deve un po’ all’osservazione di ambienti reali e molto alla mia immaginazione. È una mappatura (non mi riferisco solo ai romanzi “di montagna”) che sta assumendo una certa inaspettata coerenza, e che mi piace pensare come una specie di vasta anamorfosi di cui è impossibile trovare il punto di osservazione. Ne sta risultando un mondo ambiguo, sfuggente, che non fa niente per piacere, non rassicura, non sembra nemmeno avere un senso: è il tipo di ambiente in cui ci si può solo perdere, e in cui certo non ci si “trova”.

Aggiungiamo che frequento sempre meno le montagne. Soffro di vertigini da sempre. Oggi, quando va bene, mi limito a qualche modesta escursione su sentieri di mezza costa. Perlopiù le montagne le vedo dal basso e di lontano – o le ricordo, le immagino, appunto, le sogno. Ma uno non deve e non può solo scrivere di ciò che gli è familiare, secondo me: uno degli aspetti più eccitanti della scrittura sta proprio nel misurarsi con ciò che non ci appartiene, che ci è estraneo, che se ne sta laggiù, o lassù, da qualche parte. Esagerando un po’, a volte dico che bisogna non amare troppo la montagna, per scriverne. Intendo dire che il senso di estraneità che proviamo dinanzi alla montagna, lo smarrimento, la frustrazione, l’esasperazione e l’insofferenza sono colori a cui pochi attingono, ma che per me sono preziosi. Paradossalmente, questo mio mondo agli occhi di molti profondi conoscitori della montagna finisce per essere più “vero” di tanti paesaggi della narrativa mainstream.

C’è un’altra cosa: voglio evitare a tutti i costi ogni riferimento a localismi, a regionalismi, da bravo provinciale che mal sopporta il provincialismo. Dal momento che vivo in una realtà piccola, delimitata da confini angusti e accoccolata in una sorta di beata autoreferenzialità, ridurre la scrittura a una parafrasi della realtà, a una piantina in cui tutto torna, toponimi, distanze, altitudini, non mi interessa.

Cosa pensa della polemica nata con il nuovo romanzo di Paolo Cognetti? La letteratura si può prendere la libertà di denigrare un luogo o, al contrario, dovrebbe rispettarne le sue specificità?

Credo che la letteratura possa permettersi di tutto, sia di giocare con l’immaginazione sia di registrare scrupolosamente nomi e date reali per farne materia di invenzione – l’importante, come sempre, è il come, più che il che cosa. Chi pensa che un libro debba compiacere, attirare, solleticare, consolare o fornire una versione edulcorata e flou della realtà, ne confonde le pagine con un dépliant turistico o un comunicato da assessorato al turismo. I libri (o i film) ispirati alla montagna, secondo questa logica, vanno bene quando si confanno a una visione accomodante, quando possono essere ridotti a un bel quadretto da salotto, a un innocuo bozzetto bucolico: allora si vezzeggiano gli autori, li si premia, perché “sono dei nostri”. Ma la permalosità della provincia viene fuori non appena si azzarda un’interpretazione non in sintonia con la pubblicistica corrente. Confondendo le pagine di un libro con un articolo di giornale, chi ha reagito male a Giù nella valle non ha colto (non ha voluto cogliere) l’humanitas nello sguardo dell’autore, ma solo un improbabile e gratuito intento diffamatorio.
 Per fortuna in questo caso rimaniamo nell’ambito della polemica, sia pure amplificata dai giornali. Di fronte a pagine letterarie aspre e amaramente esplicite il carattere rancoroso della provincia più profonda può esprimersi in modo ben più violento. Penso a ciò che ha sconvolto la vita di Pierre Jourde dopo la pubblicazione di Pays perdu, e che è diventato materia narrativa in La première pierre.

(Camilla Valletti, L’altra Montagna)

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