Nel suo più recente romanzo, La conca buia, Claudio Morandini ci presenta Franco Gavaglià, un sindaco in cerca di riconferma che si trova a fare i conti con un passato che vorrebbe dimenticare. Per assicurarsi la vittoria alle elezioni, Gavaglià è disposto a sacrificare ogni principio, persino strumentalizzando il rapporto conflittuale con suo padre. Dietro la maschera del politico ambizioso, si cela un uomo tormentato da un profondo senso di inadeguatezza, pronto a tutto pur di affermare il proprio potere.
Con occhio lucido e una penna ironica, l’autore valdostano ci immerge nuovamente nell’atmosfera unica della montagna, svelandoci un mondo ben lontano dai romantici stereotipi. In questa nuova opera, l’idealizzata quiete della vita alpina lascia spazio a una realtà fatta di conflitti, passioni e debolezze umane. Attraverso una vicenda tragicomica, l’autore ci mostra come le antiche tradizioni e le logiche di comunità si scontrino con le esigenze del presente, generando situazioni paradossali e divertenti.
I personaggi di questo romanzo sono figure complesse e sfaccettate, che evolvono e si trasformano nel corso della narrazione. L’autore, con grande maestria, ci svela le loro fragilità, i loro desideri nascosti e le loro contraddizioni.
Il sindaco, un tempo figura carismatica e rispettata, incarnazione dell’anima più autentica della montagna, si ritrova ora intrappolato in una metamorfosi inesorabile. La poltrona, un tempo agognata, lo ha plasmato, trasformandolo in un’ombra grottesca di se stesso: un uomo gonfio di potere, appesantito nel fisico, avvolto in un’aura di autocompiacimento, lontano anni luce dalla gente che un tempo lo aveva acclamato. Le elezioni si avvicinano, e la sua riconferma sembra sempre più incerta.
La montagna, che un tempo era stata la sua alleata, ora sembra ribellarsi alla sua nuova immagine. Il sindaco, consapevole del distacco crescente tra sé e i suoi elettori, decide di inscenare un ritorno alle origini. Rispolvera la figura del padre, un patriarca severo e rispettato, ma violento e manesco in casa sua, simbolo di un’educazione montanara ormai in disuso. È un tentativo disperato di riconquistare l’affetto e la fiducia dei suoi concittadini, di rievocare un passato idealizzato e di nascondere le proprie contraddizioni.
L’elogio al vecchio patriarca è però una farsa grottesca. Imprigionato in un appartamento che disprezza, svuotato del suo potere, sembra un recluso. Ma dietro quella facciata fragile si nasconde un passato da incubo: un uomo dominato da una furia cieca, capace di ogni efferatezza.
Ecco allora che un’idea, sinistra e calcolata, si fa strada: come neutralizzare l’influenza negativa del padre durante gli incontri elettorali? Forse la soluzione è ricorrere a farmaci capaci di mantenere sotto controllo gli umori del vecchio… Ma fin dove ci si può spingere senza andare incontro al peggio?
Ammansito dai farmaci, il vecchio padre è una marionetta nelle mani del figlio, un fantasma apparentemente inoffensivo. Ma la sua crudeltà intrinseca, connaturata e inalienabile, turba Franco, che teme di non poterne controllare le reazioni e dichiarazioni, è preoccupato per l’immagine pubblica che potrebbe proiettare di sé. Teme che la presenza del padre possa compromettere anni di duro lavoro e minacciare il successo della sua campagna elettorale.
Il protagonista, pur non essendo un malvagio manipolatore, è un abile opportunista, abituato a muoversi in un sottobosco di interessi contrastanti e di figure ambigue. La campagna elettorale, invece di essere un momento di confronto e di dibattito sulle vere esigenze della comunità, si trasforma in un gioco di potere sterile, fondato sul nulla, sul dispetto e sull’equivoco.
L’autore sembra voler indagare le profondità oscure del potere, svelando come anche in una piccola comunità di montagna possano emergere le stesse dinamiche corruttrici che caratterizzano le grandi organizzazioni. Il sindaco, pur esercitando un potere limitato, si ritrova a doversi barcamenare in un labirinto di alleanze e tradimenti, dove la verità è spesso sacrificata in nome dell’interesse personale.
La scelta della montagna come ambientazione non è casuale. L’isolamento, la bellezza aspra e selvaggia di questi luoghi contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa, dove le tensioni si amplificano e le paure si materializzano. La campagna elettorale diventa così un pretesto per esplorare le contraddizioni dell’animo umano e per riflettere sulla natura del potere, che spesso si nutre di ambiguità e di manipolazioni.
L’arma più affilata nell’arsenale di Gavaglià è la parola, un’abilità retoricache gli permette di dipingere un passato idilliaco, un’Arcadia perduta dove la morale era ferrea e la comunità viveva in perfetta armonia. Un mito che, a ben vedere, è più un’invenzione che un ricordo, un’astrazione funzionale a mascherare le contraddizioni del presente. Gavaglià, pur conoscendo a fondo le ombre di quel passato, le violenze domestiche, l’ipocrisia nascosta dietro le facciate immacolate, continua ad evocare un’età dell’oro che non è mai esistita, perché la nostalgia è un sentimento più facile da manipolare della realtà. La sua mente, tormentata dai ricordi, è consapevole della distanza tra quella narrazione e la realtà. Sa bene che la montagna non è solo bellezza e maestosità, ma anche un luogo di solitudine e di durezza, dove l’uomo – in passato – era costretto a lottare per sopravvivere.
La figura paterna è un filo conduttore che attraversa l’intera narrazione; è anche un’intima esplorazione della paternità, un viaggio che attraversa generazioni. Il padre di Gavaglià era un patriarca che educava con il pugno di ferro, instillando paura e sottomissione, pronto ad alzare le mani su persone ed animali, considerandoli come oggetti in suo potere. Così era probabilmente stato anche suo padre prima di lui.
Un modello di padre ormai superato, ma che ha lasciato un segno indelebile nell’animo del protagonista. Gavaglià, a sua volta padre, cerca di rompere questo circolo vizioso, di costruire un rapporto diverso con sua figlia, basato sulla comprensione, sull’affetto e sulla complicità. Vuole essere un padre presente, attento ai bisogni della figlia, consapevole delle ferite del passato e determinato a non ripeterle. Tuttavia, anche Gavaglià, pur nel suo tentativo di emancipazione, rimane intrappolato in un ruolo che la società gli ha assegnato, un ruolo che lo costringe a indossare una maschera e a reprimere parte di se stesso.
In un contesto dove l’ambizione e la sete di potere offuscano spesso la compassione, e dove l’apparenza regna sovrana, mascherando fragilità e insicurezze, Leda Gavaglià, la figlia, emerge come un elemento di discontinuità. Mentre gli altri si dibattono in intrighi e lotte per il dominio, lei, con la sua umiltà innata e la sua profonda empatia, incarna un ideale di purezza e autenticità; è proprio lei a svolgere il ruolo di mediatrice. Con la sua sensibilità e la sua capacità di ascolto, Leda riesce prova a far dialogare generazioni diverse, ponendosi come un prezioso anello di congiunzione tra il padre e il nonno.
Morandini, con La conca buia, sembra voler scavare a fondo nell’animo umano, svelando le ombre nascoste che si celano dietro la patina di una comunità apparentemente unita. La campagna elettorale diventa così il palcoscenico perfetto per mettere in scena un dramma intimo, dove le maschere cadono una dopo l’altra, rivelando le ambizioni nascoste, le gelosie, i rancori che covano sotto la superficie. Con la sua consueta ironia amara, ci svela l’ipocrisia della politica, dove gli oratori di piazza si rivelano, alla luce del sole, nient’altro che attori di un grottesco teatrino, pronti a recitare qualsiasi parte pur di conquistare il potere. Si addentra, inoltre, nelle dinamiche familiari, mettendo in luce come il rapporto tra genitori e figli possa essere profondamente segnato da interessi personali, violenza e manipolazione.
La conca, con il suo buio eterno, è diventata il deposito dei ricordi più dolorosi di Gavaglià. Qui, nel silenzio assordante, ha seppellito i frammenti di un’infanzia spezzata, nascondendoli come tesori in un forziere. L’oscurità è diventata il suo mantello, proteggendolo dallo sguardo giudicante del padre e dalle cicatrici del passato.
(Pina Bertoli, Il mestiere di leggere)