CLAUDIO MORANDINI – ECLETTISMO E VIRTUOSISMO
di Umberto Rossi

Se si ripercorre la produzione del romanziere aostano, si resta leggermente interdetti: cosa tiene insieme una storia di fantasmi come Nora e le ombre, un gotico di provincia come Le larve, un sofisticato romanzo storico sulla musica contemporanea come Rapsodia su un solo tema. Colloqui con Rafail Dvoinikov, il compatto noir dalla vena grottesca e satirica Il sangue del tiranno e la stralunata epopea di sfigati A gran giornate? Mi verrebbe da rispondere: la considerevole padronanza delle tecniche narrative dimostrata dall’autore, la sua inarrestabile capacità di intrecciare vite e situazioni, nonché una prosa di grande pregio. Ma lascio che sia Morandini stesso a raccontarci come sia riuscito a produrre in così pochi anni un quintetto di romanzi così diversi e così originali ed efficaci.

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Parto dal Sangue del tiranno: in questo romanzo descrivi (con cognizione di causa, oserei dire) la decomposizione di un’università di provincia, ed è inevitabile pensare che stia andando in putrefazione non solo il piccolo ateneo nel quale si svolge la vicenda, ma in generale, per sineddoche, l’intera cultura italiana. Ci sto leggendo troppo?

Dietro a questo romanzo c’era un progetto di collana cui rifarsi, un’idea militante di denuncia dei mali del Paese. Per rispettare questo assunto ho costruito un ambiente chiuso e autoreferenziale e vi ho ambientato una vicenda che si rifacesse, più di quanto avrei fatto se fossi stato lasciato libero di muovermi, a mali e vizi reali: è stato il mio avvicinamento più marcato non alla realtà, ma alla cronaca – più di così non riesco. Perciò, la tentazione di leggere il pretenzioso e cadente ateneo di provincia come una sorta di paradigma di una situazione più generale è forte, e credo di averci messo del mio, nel dosare dettagli legati alla quotidianità e allusioni di impronta più letteraria. Non entro in un’università da molti anni, ma lettori che vi lavorano mi hanno confermato che sì, il mondo universitario è così, se non peggio, che tiranni e lacchè vi albergano, e che il ripiego di molti dinanzi a tutto ciò è davvero un cinismo di maniera, un’indifferenza egoistica. Non so se tutto l’ambiente accademico sia così disperatamente scollato – spero di no. E non voglio credere che il mondo della cultura sia così infettato da piaggeria, rivalità, invidie, ripicche e altre piccinerie – se lo è, lo è perché così è il mondo, ma da quassù godo di una vista sfocata sui grandi sistemi e le grandi organizzazioni, e posso solo lavorare di immaginazione sulla base di qualche indiscrezione.
Comunque, decomposizione e putrefazione, come le definisci tu, sono potenti motori di storie, in qualsiasi ambiente e in qualsiasi epoca. Nel romanzo che racconta tutto ciò credo davvero – assai meno nella narrativa che si impegna a denunciare il male, o che crede di indicare possibili vie d’uscita.

Mentre leggevo Il sangue del tiranno riuscivo a visualizzarlo come una di quelle amarissime commedie all’italiana dove si rideva per non piangere. Penso a Un borghese piccolo piccolo oppure a C’eravamo tanto amati… la scrittura quasi cinematografica di questo romanzo breve è deliberatamente tale? Pensavi a un eventuale sbocco filmico?

Ecco, non avevo proprio in mente il cinema, anche se l’idea del tiranno odioso da eliminare fisicamente mi è venuta riguardando Les diaboliques di Clouzot. Detto tra noi, troppi oggi pensano in termini cinematografici quando scrivono, e questo non mi sembra un arricchimento del testo letterario, ma piuttosto una resa, visti anche i film gonfi di cliché che circolano oggi. Probabilmente il carattere cinematografico del Sangue del tiranno nasce dal rispetto (parziale, e vissuto anche con qualche disagio e resistenza da parte mia) dei canoni del noir, un genere che con il cinema ha forti legami. Io, per la verità, ho sviluppato certe scene, soprattutto quelle dialogate, pensandole in termini teatrali. I frequenti duetti dell’io narrante professor Villani con il collega Calandrone sono nate proprio così. Che poi il romanzino possa essere pensato anche con una destinazione cinematografica mi fa piacere – per dire, il Claudio Gora de La donna della domenica o il repellente Romolo Valli nel Borghese piccolo piccolo sarebbero perfetti: farsa e tragedia mescolate assieme fino a non essere più districabili; untuosità di voce e di gesti, e corpi che attraverso disturbi anche schifosi esternano un malessere profondo.

Sono sorpreso dalla differenza che c’è tra la grande aderenza del Sangue del tiranno a una ben precisa, per quanto squallida, realtà umana contemporanea (quella che s’incontra nei nostri atenei), mentre A gran giornate sembra sospeso nel tempo e nello spazio, una specie di teatro dell’assurdo fattosi romanzo. Come mai una sterzata così brusca tra un libro e l’altro?

In realtà le prime stesure di A gran giornate precedono Il sangue del tiranno, che ho scritto su invito di Agenzia X. A gran giornate, con tutta quell’onirica indeterminatezza di tempi, luoghi e psicologie, nasceva comunque anche come reazione alle fatiche di documentazione imposte da Rapsodia, che, essendo anche un romanzo storico, ha richiesto un impegno insolito per me, al punto da spingermi a ripetere la stucchevole frase “Mai più un romanzo storico!”
Ad ogni modo, avverto quelle che tu chiami “sterzate” tra un libro e l’altro solo quando me le fanno notare. Molto spesso i miei libri crescono assieme, anno dopo anno, ne porto avanti più di uno alla volta, passando dall’uno all’altro come se si trattasse di capitoli di un’unica opera, parti dedicate alla descrizione di un unico mondo narrativo. I tempi editoriali confondono ulteriormente le carte.
Tirate le somme, A gran giornate è in effetti il romanzo più libero e più mio, quello in cui, aboliti certi vincoli, ho ritrovato il piacere quasi sensuale dell’invenzione, della sorpresa, della risata e del brivido; quello che in fondo riassume e ripercorre tutto quello che ho scritto finora.

A gran giornate l’ho letto come un’impietosa demolizione dell’identità maschile. Mi piange il cuore che siamo fatti così, noi uomini, come i tuoi personaggi, però non ci si può nascondere dietro un dito… ma c’è qualche speranza?

È vero, A gran giornate è diventato un repertorio di bassezze, debolezze e meschinità del mondo maschile, ma non era una mia intenzione. All’inizio volevo mettere in scena buffi personaggi inadeguati e incongrui, e solo per rispetto a certe convenzioni della narrativa picaresca li ho voluti tutti maschi, spinti o trascinati da pulsioni primarie di sopravvivenza, uniti solo da un confuso sentimento di solidarietà che è la parodia della classica solidarietà virile. Il romanzo non vuole essere un j’accuse all’identità maschile, è solo il prodotto, temo, di un acceso realismo, la propensione a scovare il comico in ogni figura umana – la mia misantropia si esercita su un raggio molto ampio, e se lo sguardo indagatore si appunta innanzitutto sul mondo maschile è perché parto da paesaggi mentali e comportamenti che conosco bene. Perciò sì, se generalizziamo un po’ noialtri maschi siamo fatti così, come dici tu, voliamo basso e siamo compunti cultori del nulla o del poco, prigionieri di ruoli svuotati di senso, disorientati di fronte al futuro e allo stesso tempo sufficientemente superficiali da non rendercene nemmeno conto. E tendiamo a vedere le donne come portatrici di una misteriosa forza interiore, di fronte a cui non sappiamo far altro che sbuffare di insofferenza. Immagino che esistano anche luminose eccezioni, esempi di gravitas maschile, ma temo che non avranno mai molto spazio in quel vasto repertorio di debolezze, sconvenienze, imbarazzi e passi falsi che stanno diventando i miei romanzi.

In A gran giornate sento le atmosfere di Beckett, Buzzati, Dürrenmatt… sono autori che hai frequentato, oppure sei finito dalle loro parti venendo da altri lidi letterari?

Avevo ben presente Beckett, certo. Nelle sue pagine ho trovato il colore giusto per un romanzo che racconta una lunga corsa verso la fine, in cui picari assolutamente inadeguati al loro ruolo – non siamo così tutti, in fondo? – finiscono per farci ridere di ciò che allo stesso tempo ci spaventa. Penso al Beckett più ciarliero, quello di En attendant Godot, più che quello afasico di certe opere successive – e non solo per i dialoghi, anche per le ambientazioni. E poi mi sono ricordato del suo Film, con il vecchio Buster Keaton in fuga. Anche il primo Pinter, per rimanere nell’ambito della scrittura teatrale, è stato una frequentazione importante. E i film di Buñuel, per il senso di libertà che li anima e quel dialogare sempre un po’ sentenzioso dei personaggi.
Buzzati è stato uno dei più convinti cantori della morte, dell’attesa (della morte, sempre) e della ricerca vana di un senso dietro a un’ossessione (pensa a Un amore, che mi pare il suo romanzo più bello): l’intero episodio del ricovero in clinica dello scrittore Angous può essere letto come un omaggio al Buzzati “ospedaliero”, oltre che come una parodia del Thomas Mann de La montagna incantata. Il modello letterario che mi ha permesso di trovare un ordine, per quanto precario, in mezzo al materiale tanto eterogeneo che andavo raccogliendo è però il Satyricon proprio come ci è giunto, a frammenti spesso inframmezzati a ellissi misteriose: da lì mi è venuta l’idea di numerare gli episodi, come nelle edizioni dell’opera di Petronio.
Accanto a questi riferimenti convivono altri di varia provenienza, non tutti nobili: Stanlio e Ollio, il Monsieur Hulot di Tati, Campanile, i varietà del sabato sera di quando ero bambino, reminiscenze dai Voyages extraordinaires di Verne o dal Tartarin di Daudet, romanzi di Joël Egloff o di Magnus Mills, perfino la Cabot Cove della Signora in giallo

Rapsodia su un solo tema è un romanzo sulla musica, ma anche sui compromessi che un artista si trova ad accettare per campare (o sopravvivere). C’è qualcosa di autobiografico in questo?

Saper gestire i compromessi è un’arte necessaria: e chiunque pubblichi sa quanto sia importante far tesoro dei suggerimenti altrui, oltre che difendere le proprie scelte senza diventare cocciuti. Detto questo, non mi sento nei panni di Dvoinikov – nessuno di noi lo è, per fortuna, la situazione storica è profondamente diversa, e sentirsi vittime oggi al pari di lui sarebbe fare del vittimismo ridicolo. Piuttosto mi sento vicino a Prescott, anche in certe sue idiosincrasie.
Il punto cruciale comunque è sempre lo stesso: come mantenere l’equilibrio tra ciò che si è o si vuole esprimere e ciò che gli altri (i mecenati, i committenti, gli editori, pure i lettori) vogliono da noi per consentirci di esprimerci? Io per esempio ho avuto, con A gran giornate, la fortuna di trovare in Marco Nardini de La Linea un editore entusiasta e rispettoso del mio testo e anche convinto delle sue potenzialità commerciali – il lavoro che abbiamo fatto assieme sul romanzo ha smussato certe asperità, ricondotto certe derive di sperimentalismo un tantino fine a se stesso, dato una passata di compattezza, senza che questo me lo facesse sentire meno mio.

Nella storia del compositore russo Dvoinikov ci vedo molto della tragica vicenda umana di Shostakovich, che come il tuo personaggio fu a momenti perseguitato e coccolato dalle autorità sovietiche. Ma so che il tuo punto di partenza è un altro…

È vero, l’impulso a scrivere un romanzo basato sul confronto tra due mentalità, due storie personali e due culture musicali differenti, mi è venuto molti anni fa, nel leggere le Conversations tra il giovane americano Robert Craft e il vecchio russo naturalizzato statunitense Stravinsky: mi attirava la dimensione dialogica, la possibilità di divagare e anche di togliersi qualche soddisfazione propria della conversazione, soprattutto quando a parlare è un anziano che ha molto vissuto. Detto questo, il mio Dvoinikov, a differenza del cosmopolita Stravinsky, è rimasto un isolato e un perseguitato; certi suoi ricordi d’infanzia possono rammentare episodi della biografia di Stravinsky, ma tra i due c’è un abisso. La musica di Dvoinikov sì, viene da quella di Shostakovich: nelle pagine “musicologiche” del romanzo, in cui Prescott analizza immaginarie composizioni di Dvoinikov, c’è il ricordo dello stile compositivo di Shostakovich o di certi suoi allievi come la Ustvolskaya.

Galavamov, il bieco tormentatore di Dvoinikov, è talmente grottesco da essere più vero del vero. Questa vena di assurdità riemerge spesso nella tua narrativa: il rettore La Sansa nel Sangue, la combriccola di spostati in A gran giornate… cosa ti attrae in questi personaggi?

Intanto il registro grottesco mi attrae irresistibilmente: è mettere una lente d’ingrandimento (non deformante, proprio d’ingrandimento) davanti a una figura umana, e osservare. Ne vengono fuori mostri che sono tali proprio solo perché non nascondono o non sanno nascondere certi aspetti della loro personalità che noialtri, dotati di un certo controllo sulle nostre vite, sappiamo nascondere anche a noi stessi. Insomma, mi sento sempre nell’ambito di una sorta di realismo spinto, anche quando premo la marcia del grottesco – sono sicuro che figure caricaturali come Franz Spaventa o Nathan, per citare l’ultimo romanzo, esistono davvero da qualche parte, magari ancora più improbabili di come le ho dipinte io. Vi sono mondi (periodi storici, contesti sociali) nei quali la realtà si spinge già di suo verso aspetti estremi, verso caratterizzazioni caricaturali: il sottobosco dei funzionari di un regime tirannico, ad esempio (i verbali di certi interrogatori subiti dal pianista russo Neuhaus sono anche più assurdi di quelli siglati da Galavamov), o certi ambienti chiusi e autoreferenziali come l’università (licei, ospedali, ministeri, famiglie, assemblee locali di ogni grado sono pieni di La Sansa o aspiranti tali), o le piccole realtà di provincia. In tali casi, mi rendo conto che il rischio che il grottesco di invenzione sia superato da quello reale è tangibile.

Nella Rapsodia su un solo tema anche Ethan Prescott, il giovane compositore statunitense che intervista il vecchio Dvoinikov, deve scendere a patti – non col regime, ma col mercato – scrivendo una partitura per DJ Kosmo, “musicista” techno ormai sul viale del tramonto. Eppure ho l’impressione che da questa forma di “prostituzione” artistica nasca qualcosa di non disprezzabile.

Hai ragione: ma nella seconda metà degli anni ’90 quella di ispirarsi ai nuovi ritmi dance stava diventando già una moda; e proprio in quegli anni si sviluppa la trovata di affidare a DJ il remix di classici del jazz o della musica colta. A volte con risultati interessanti e divertenti, altre no (oggi molte di quei tentativi mi sembrano francamente superati, alcuni proprio inascoltabili). Ethan Prescott, che scrive contro queste commistioni delle pagine allegramente feroci, non è contrario alle contaminazioni tra, diciamo, alto e basso, tra pop e colto: ma è anche affetto da una buona dose di snobismo, e la sua avversione per la techno di DJ Kosmo è accentuata dalla dimensione commerciale che assume l’operazione, dall’odore di kitsch che promana da tutto il progetto.
Quanto alle contaminazioni, in particolare quelle tra generi o elementi inconciliabili, mi attirano sempre e profondamente. I miei romanzi crescono proprio così, dall’attrito provocato da elementi incompatibili – non so se il suono di quell’attrito si senta ancora a opera terminata, però sono consapevole che da lì scatta il dinamismo della storia, dal cozzo (provocato in modo anche un po’ infantile, se vuoi) tra questo e quello, tra bello e brutto, nobile e turpe, alto e basso, buffo e tragico, virtù e vizio. E tutto senza sentirmi postmoderno.

Sono colpito dalla mutevolezza delle tue architetture narrative. È qualcosa di deliberato e pianificato, o sono cose che ti vengono d’impulso?

Non pianifico mai, e non mi fido degli impulsi. Diciamo che i miei romanzi si reggono su strutture di cui assecondo senza fretta la formazione. Per questo tendo a vedere tra gli uni e gli altri soprattutto la continuità, i punti di contatto. Sarà che i miei romanzi nascono tutti allo stesso modo, da un’ideuzza da poco (una saga familiare! una storia di fantasmi senza Dio! un vecchio compositore che rievoca il passato! avventure di personaggi senza psicologia!), e si sviluppano tutti nel corso di anni, con l’eccezione parziale del Sangue del tiranno, da materiale eterogeneo che un po’ alla volta trova una sua coerenza, senza scalette o scadenze da rispettare. Non mi convincono – li sento così lontani dalla straordinaria imperfezione della vita – i meccanismi narrativi impeccabili, i colpi di scena studiati a tavolino, i dosaggi di ingredienti tarati sulle aspettative di un certo tipo di pubblico. Cerco di rispettare il lettore e di non ridurlo a “pubblico”. L’andamento sospeso, anche esitante, la libertà di movimento, la frammentarietà anche, dei miei romanzi è la conseguenza (voluta, o appunto assecondata) di questo mio modo di procedere, che credo infranga alcune buone regole compositive, il che non mi dispiace affatto.

Ci puoi raccontare qualcosa della tua attività di scrittura per la radio o il teatro?

Oh, sono cose di un mucchio di anni fa. Ho passato tutti gli anni ’90 a scrivere cicli di radiocommedie per la sede RAI di Aosta, che allora dedicava spazio e mezzi alla fiction; qualcosa di quei testi è finito anche sul circuito nazionale. È stata una palestra di scrittura importantissima: ho imparato a lavorare con un numero ristretto di attori, nel rispetto di tempi precisi, limitando effetti di scena, appropriandomi soprattutto della tecnica del dialogo, che probabilmente è una delle arti più artificiose e meno immediate, anche se deve suggerire immediatezza e naturalezza. L’esperienza decennale si è conclusa in modo direi fisiologico: avevo esaurito tutte le possibili combinazioni di voci e ruoli, e cominciavo e sentire il bisogno di architetture narrative più importanti, meno spicce. A quegli anni risalgono anche alcuni monologhi comici che hanno girato un po’ di teatri.

In tutto quel che ho letto finora sembra essere del tutto assente la realtà in cui vivi, la Valle d’Aosta. O forse sono io che ci vedo poco?

No, hai ragione. Nei primi romanzi addirittura si può leggere una sorta di rimozione della regione in cui abito, visto che le ambientazioni sono ispirate alla pianura più piatta che si possa immaginare. In realtà, certi aspetti della provincia di confine in cui vivo e da cui scrivendo tento di uscire finiscono per trasferirsi anche nei romanzi. La cittadina di Nora e le ombre e anche quella del Sangue del tiranno, così chiuse, vischiose, dominate da rituali ossessivi, prive di una chiara coscienza dei propri limiti, così cerimoniosamente mediocri, potrebbero far pensare a una sorta di Aosta trasferita in pianura. E tutti i personaggi che si agitano e battibeccano in A gran giornate sono inguaribilmente provinciali, figli di mondi piccoli e scollati, vengono da vite contratte e compresse, attraversano mondi ostili che non sono altro che dilatazioni oniriche di province italiane (una volta Manganelli rispose a chi gli chiedeva come immaginasse l’aldilà: “Come Abbiategrasso, ma senza gli autobus”; forse non era Abbiategrasso, ma ci siamo capiti) e continuano a comportarsi fino alla fine come smarriti provinciali di confine.
Qualcuno potrebbe concludere che, nonostante tutti i miei sforzi di fuga e di rimozione, anche io rimanga irrimediabilmente condizionato dalla provincia più periferica.

Due domande di rito. La prima è: cosa bolle in pentola?

Altri romanzi sono lì, in fase di decantazione e in attesa di una destinazione editoriale. Sono piccole sfide personali, movimenti in territori non ancora battuti: una storia di montagna (eccola, finalmente, la montagna!) alla Ramuz o alla Chessex, passabilmente claustrofobica e inquietante; un romanzo che mescola adolescenza, chitarre rock e un mostro lovecraftiano musicalmente assai dotato; e una storia tutta o quasi al femminile, come certe commedie brillanti hollywoodiane degli anni ’40. Ma è troppo presto per tutto questo: ora è il momento di accompagnare quel misterioso oggetto che è A gran giornate per il mondo, di presentarlo e di scoprirvi, assieme ai lettori, un senso possibile.

La seconda: quali scrittori italiani ti piacciono, viventi e non?

Amo i grandi irregolari del Novecento: Savinio, Landolfi, Palazzeschi, Bufalino. Di recente mi sono fatto scorpacciate di romanzi di Tobino, Pontiggia, Bonaviri, Malerba, Stelio Mattioni… Poi, di mio, passerei le giornate a rovistare nelle bancarelle in cerca di testi che nessuno ripubblicherebbe più. Ad attirarmi in quei libri è l’amore per la lingua mostrato da tutti gli autori, anche da quelli stilisticamente meno caratterizzati. Quella coscienza linguistica oggi è rara, per vari motivi che non sto a dire, e ne ho nostalgia.
Non vorrei però che le mie letture facessero pensare a delle sedute spiritiche: tra i viventi ammiro, che so, Michele Mari, Rosa Matteucci, Laura Pariani – autori insomma dalla voce riconoscibile, la cui ricerca stilistica è avventurosa e appassionante quanto ciò che raccontano.

(A cura di Umberto Rossi, “Pulp libri” gennaio/febbraio 2013)

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