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Il lettore si convince a non alzare il velame per non perdere l’incanto di un indecifrabile giuoco.
(Elena Salibra, “L’immaginazione”)
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Come posso parlare di questo libro senza tradirne lo spirito? Senza banalizzare l’eleganza del tratto, la genialità, la lucidità visionaria? Posso dare un’idea delle mie prime impressioni dicendo che così, senza rifletterci, con un puro meccanismo associativo, o meglio evocativo, mi ha fatto pensare a Auster, a Saramago, a Beckett, ai film di Buñuel. E poi alla pittura di Bosch, di Bruegel e di Dalì. Di Auster mi ha ricordato quel meraviglioso libro che è Nel paese delle ultime cose (già recensito nella rubrica “L’età dell’innocenza”).
(Giovanna Repetto, “Il Paradiso degli Orchi”)
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Lo squallore avvilente di un’umanità a ben vedere molto più “normale” di quanto gli eccessi con cui si mostra possono far credere, viene sostenuto in modo perfetto dalla scrittura di Morandini le cui doti di sintesi, non nuove a chi ha già letto almeno un altro suo romanzo, toccano qui punti di vera maestria, con dialoghi e descrizioni capaci, in pochi fondamentali elementi, di inverare un carattere, delineare una situazione, mettere in piedi una rete di psicologie; e anche di cambiare registro con invidiabile scioltezza, padrona soprattutto di una spietata comicità che attenua l’urto con i molti inferni attraversati e ristora, di sana consapevolezza, chi si è immerso, impavido, in questo labirintico avello.
(Fabio Ciriachi , “Critica impura”)
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Bisogna dirlo subito: A gran giornate è un capolavoro.
(Angelo Ricci, “Notte di nebbia in pianura”)
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Gli aggettivi che vengono in mente dopo la lettura sono: irriverente, allegorico, parossistico, ironico, sarcastico, caustico, umoristico, grottesco, visionario e beckettiano, quest’ultimo per quanto riguarda i dialoghi. La versatilità di Morandini si conferma ancora: se spesso accade che di un autore ci sembra di leggere sempre lo stesso libro scritto in maniera diversa, questo non è affatto il caso.
(Roberto Sturm, “Carmilla online”)
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Morandini scherza col peggio del Bel Paese e senza seguire l’ordine lineare degli eventi ci trasporta in un’avventura picaresca, un’odissea senza scopo che ha in sé tanta buona letteratura italiana, coltivata in modo nuovo.
(Amarilli Novel, “Mangialibri”)
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Ogni due anni (ultimamente ogni dodici mesi) esce un romanzo di Morandini, e ogni volta lo scrittore di Aosta mi prende in contropiede. Inutile tentare di farsi un’idea della sua prossima scorribanda narrativa sulla base dei romanzi già scritti. Morandini ha una diabolica capacità di cambiare le carte in tavola. L’ultima volta ci ha servito un raffinato romanzo sulla musica contemporanea dalla struttura eterogenea ma tremendamente efficace. Questa volta, invece, segue le surreali se non beckettiane peripezie di un gruppetto di autentici, assoluti, monumentali sfigati in tutti i sensi del termine.
(Umberto Rossi, “Pulp libri”)
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Ma non di solo questo si tratta, di marionette d’un teatrino “osceno” che agiscono sullo sfondo d’un mondo del tutto fuori sesto: c’è dell’altro. Il ciarliero nervoso candore lascia spazio infatti, nella seconda parte del libro, al racconto on the road che vede casualmente, con un intreccio di destini, tutti i personaggi viaggiare insieme a bordo di un furgone, entro una dimensione spazio-temporale indeterminata, di profonda smemoratezza, totale sbandamento; dove la realtà assume la parvenza medesima della pastosa sostanza dei sogni, e sogni e incubi, confondendosi, non sembrano mai essere stati così reali. Aggirandosi con «fatalistica disinvoltura» e «irresponsabile levità», immersi nell’apocalittico limbo d’un bloccato tramonto, procedono per inerzia sulla strada, sempre più smarrendo il senso del loro andare collettivo.
(Domenico Calcaterra, “Sul Romanzo” e “Niente stoffe leggere”)
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La scrittura di Claudio Morandini, se devo dirla tutta, arriva a sfiorare l’insolenza: approfondimento critico intelligentissimo, finezza espositiva senza quasi paragoni, almeno nell’immediato parterre contemporaneo, placida armonia razionale nel riportare a galla i tumulti più beceri dell’angoscia privatissima, umana e esistenziale tutta, in senso finanche storico, politico, culturale.
(Francesca Fiorletta, “Portbou”)
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Se amate gli scrittori dalla fantasia sbrigliata ma vorreste che fossero al servizio di una filosofia della vita esente da menzogne, Morandini è l’autore che fa per voi. Vi condurrà in un luogo dove tutto è allegoria di qualcosa che non sappiamo, o che sappiamo talmente bene che ormai non riusciamo a parlarne senza l’attenuazione della favola.
(Fabrizio Ottaviani, “Il Giornale”)
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Sbandati e capricciosi come fili di una trama già scritta, i sodali occasionali si avviano dove non ci si può perdere perché ci si è già persi prima, da qualche parte che non ci è dato sapere. Sembra di stare in un bislacco e accurato disegno buzzatiano, con dentro un essenziale percorso calviniano, e qualche deviazione slapstick del primo Celati. Ci stupiamo di leggere o di riconoscere qualcosa che ci pare di aver sempre letto o sognato, o forse meglio che avvertiamo come un presagio che solo alla scrittura possiamo confessare di avere.
(Paolo Morelli, “Il Manifesto”)
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Un libro provocatorio, scritto da un illusionista che gioca a nascondere. Un libro che racconta la vita attraverso il pensiero della morte. Svolgendolo, il racconto, in una picaresca fenomenologia del male. Non il male spettacolare, quello di tanti noir, ma un male grigio, familiare, inafferrabile, strisciante nel quotidiano.
(Giuseppe Giglio, “La Sicilia”)
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A gran giornate si serve del viaggio come struttura portante della narrazione, inserendosi così nella tradizione del romanzo/contenitore che troppa narrativa contemporanea, piattamente stesa sul modello del giallo, ha colpevolmente emarginato. Mentre la scatenata fantasia di Morandini popola il racconto di figure e situazioni a metà fra l’assurdo e il mostruoso, il suo talento realistico, perfettamente servito da una lingua che si segnala per precisione lessicale e ricchezza di forme, aggredisce la natura umana con feroce crudezza.
(Marco Codebò, “L’isola misteriosa”)
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L’attenzione alla ricerca stilistica, la voglia di non assoggettarsi alla tirannia della scena e delle trame lineari, il dialogo con tradizioni gloriose e con il modernismo mai interrotto caratterizzano anche questa nuova prova di Morandini, A gran giornate. Evoco il modernismo proprio perché i suoi romanzi appaiono in dialogo diretto con la grande tradizione sperimentale di inizio Novecento, in cui il romanzo si è riaperto alle possibilità del suo farsi.
(Giacomo Lamborizio, “Paperstreet”)
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In A gran giornate le colpe sono agili come un balletto, le volontà picaresche spesso raggiungono apici di cialtroneria, il tutto è guidato dall’abilità affabulatoria di Morandini, sicuramente uno dei pochi scrittori oggi in Italia capaci di scrivere “bene”.
(Elio Grasso, “FuoriAsse” )
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Con perizia affabulatoria davvero singolare, Morandini lascia trapelare una certa compassionevole curiosità e una svagata devozione per questi campioni della mediocrità, tutti alla disperata ricerca di un significato concreto e rassicurante da attribuire a un’esistenza sempre più insensata e crudele.
(Wendy Columbo, “Excursus”)
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Storie che s’intrecciano fino a convergere in un unico, grottesco percorso nel quale compaiono figure gotiche di animali usciti dal bulino di Goya, in un tempo storico senza coordinate dai traguardi irraggiungibili.
(Anita Garrani, “Articolo 33”)
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… è una raccolta di racconti uno più spassoso dell’altro. Morandini è proprio bravo: voce, idee, solidità, costruzione delle storie, originalità. Ha tutto.
(Paolo Zardi, Grafemi)
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