UOMINI ALLA DETIVA IN UNA STRAMPALATA “WASTELAND” ALL’ITALIANA

Un grottesco e caricaturale ritratto delle fragilità maschili come allegoria di vita, in un’arguta opera picaresca edita da La Linea

I personaggi creati dalla penna di Claudio Morandini nel suo ultimo romanzo “A gran giornate” (Edizioni La Linea, pp. 256, euro 14) sembrano essere un perfetto decalogo dei difetti umani: pusillanimi, imbroglioni, pervertiti, invidiosi, adulteri, arroganti, perdigiorno, buffoni, esibizionisti, sessuomani. Una sconquassata armata Brancaleone che ricorda gli improbabili protagonisti della blasonata letteratura pulp à la Bukowski, in versione nostrana. Bizzarri e fastidiosi perché apparentemente irreali. Apparentemente, appunto.
Sì, perché, sebbene la cornice narrativa sia fittizia e, a tratti, iperbolica, le storie intrecciate e i bislacchi aneddoti raccontati nelle pagine di questo fitto romanzo mostrano le vite reali di persone comuni, impantanate nelle proprie idiosincrasie e aspirazioni, manie e ambizioni: vite umane, troppo umane, si potrebbero definire.
Con perizia affabulatoria davvero singolare, Morandini lascia trapelare una certa compassionevole curiosità e una svagata devozione per questi campioni della mediocrità, tutti alla disperata ricerca di un significato concreto e rassicurante da attribuire a un’esistenza sempre più insensata e crudele.
Una riflessione nell’incipit riassume icasticamente la condizione d’instabilità del vivere moderno che pervade il libro intero: “Una trita allegoria della vita mostra un vecchio che corre trafelato verso un abisso, dove precipiterà e scomparirà per sempre. Bene, credo di trovarmici dentro, a quell’allegoria, e di essere proprio quel vecchio impaurito. Semplicemente, visto che un conto è correre tra i versi di un poemetto menagramo, un conto è vivere…” Qui , a parlare in prima persona delle avversità del vivere quotidiano è il narratore delle vicende – e, soprattutto, la coscienza critica designata ad accompagnare il lettore – che, tuttavia, compare come protagonista attivo soltanto a metà del lungo racconto (in realtà è presente già in un piccolo cameo di poca rilevanza diegetica), allorché diventa uno dei promotori della sconclusionata combriccola.
Gli eventi che precedono questo momento e che compongono la prima parte del romanzo sono dedicati a tracciare i singoli profili dei protagonisti prima del fatidico incontro, quando, dopo aver ricevuto quello che il narratore designa come un “poderoso calcio metaforico nel posteriore”, si trovano a racimolare la propria dignità dal suolo polveroso nel tentativo di stirarla per bene e vestirla nuovamente. Il fallimento, però, è in agguato a ogni angolo: da qui in poi, il racconto si dispiega in un inesauribile campionario di stramberie e paradossi, facezie e assurdità che divertono, intrattengono ma, allo stesso tempo, lasciano sedimentare un senso di vacuità e depressione in chi legge.
Si rimane divertiti e al contempo turbati dalla solitudine amorosa di Onorato Casamagna e dalla sua patetica perversione nei confronti di una bambola gonfiabile che custodisce gelosamente nella sua valigia di commesso viaggiatore; si sogghigna a denti stretti ai pressanti tentativi di seduzione da parte dello scaltro truffatore Tullio Semenzani ai danni di ricche e malferme vedove in sedie a rotelle; la conversione al naturismo consapevole di Nathan il sagrestano, che scopre il piacere di vagare nudo per le foreste, strusciando il ventre rigonfio su cortecce e prati, è spassosa quanto scriteriata; così come incomprensibile è la scelta di Franchino Spaventa di mutilare e sfregiare il proprio corpo per combattere l’impersonalità e guadagnare carisma e avvenenza.
In questo viaggio picaresco au rebours i protagonisti, invece di conquistare saggezza, maturità e discernimento, si invischiano sempre più in opachi abissi di squilibrio e insensatezza, in scarti esiziali del proprio percorso di vita reale. Questo vortice incessante di miseria antropologica mette a nudo le fragilità dell’universo maschile di mezza età, colto nei momenti di profonda, dolorosa e spaventosa consapevolezza della propria provvisorietà, della propria finitudine.
In questo senso, esemplare è la descrizione della polaroid di gruppo che ritrae gli improbabili compari in un momento di apparente svago del loro sconclusionato viaggio: “I miei compagni avevano l’espressione devastata dei profughi, dei terremotati, dei fuggiaschi catturati nel fango dopo un’evasione. Sorridete, dissi ugualmente, e di sicuro qualcuno lo fece (…) ma nella foto che uscì dalla macchinetta apparvero solo vecchi stanchi e spaventati, gli occhi cerchiati, le bocche a U rovesciata, le braccia inerti lungo i fianchi, le spalle incurvate da un senso durevole di agonia”.
La desolante immagine dei volti deformi di questi uomini alla deriva confligge con il cliché di una mascolinità sana e possente, scevra dai timori delle malattie e dalle preoccupazioni dell’invecchiamento, illusoriamente cristallizzata in continuum atemporale. Al contrario, essa atterrisce ancor di più proprio per il suo senso di intangibilità, poiché racconta di una dimensione cronotopica reale, imminente e ineludibile.
Il vagare – o, sarebbe meglio dire, la fuga – apparentemente senza meta della sgangherata brigata, pigiata tra i sedili di un furgone maleodorante, è intercettato da un grosso uccellaccio che si aggira minaccioso nel cielo, al di sopra delle loro teste spelacchiate, sussume il senso di disfacimento e morte che aleggia tra le pagine del libro fin dai primi accordi.
Soli – neanche una figura femminile a fargli compagnia – stanchi e spauriti, gli eroi di questa avventura sono, tutto sommato, uomini ordinari che s’illudono di ingannare la propria sorte portandola a passeggio per la strada: il loro percorso è composto, sì, da deviazioni provvisorie, brusche decelerazioni, brevi fermate e incomprensibili cambiamenti di direzione, tuttavia una destinazione c’è sempre e gli si para davanti, alla fine. Che sia un gigantesco mostro marino dalle sembianze femminee, un’imponente roccia nuda e priva di vita o un’insolita formazione atmosferica, lei è lì e sembra immobile nell’attesa.
Con una conclusione enigmatica ed elusiva, Morandini consegna al lettore un’epopea positiva della fragilità maschile, sondandone con occhio accorto e indulgente gli aspetti più meschini e quelli più esilaranti. Il tono ironico impiegato nella narrazione è penetrante, acuto, ma mai irriverente o paternalistico, piuttosto comunica un forte senso di empatia e condivisione, soprattutto quando descrive scene grottesche o caricaturali dal carattere chiaramente felliniano. L’andatura della sua prosa è accorta e ponderata quasi a lasciare intendere che, come nella vita, anche in letteratura c’è sempre un crepaccio inaspettato in cui si rischia di cadere.

(Wendy Columbo, “Excursus.org”, anno V, n. 47, giugno 2013
http://www.excursus.org/il-vaso-di-pandora/uomini-alla-deriva-in-una-strampalata-wasteland-allitaliana)

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