NARRATIVA – Per le edizioni La Linea “A gran giornate” dello scrittore aostano Claudio Morandini
VIAGGI TRASOGNATI VERSO L’INEVITABILE
Di quella che spacciano come crisi una cosa è sicura: serve a ridurre diritti e spazi di libertà. Nell’editoria ad esempio, che ha ormai solo il mercato come contatto col mondo, serve all’azzeramento delle migliaia di ramificazioni e voci diverse che la scrittura ha sempre avuto, per l’installazione di una letteratura unica, estrema propaggine mediale che pretende di amministrare i pensieri per portarli verso una razionalizzazione totale. E non è del prossimo futuro che stiamo parlando, ormai bisogna scovare negli anfratti i libri che affermano il potere conoscitivo della fantasia, libri innamorati che portano con sé le parole del mondo e ne propongono una lettura. Ogni volta è una contentezza trovarli, come nel caso di A gran giornate, di Claudio Morandini (la Linea, pp. 256, euro 14).
Non so se Morandini, un aostano che ha già al suo attivo quattro romanzi, abbia avuto in mente il Petrarca di “e la morte vien dietro a gran giornate”, sta di fatto che per mettere in scena un’allegoria lampante, sotto gli occhi di tutti, permette all’io-narrante di dichiararlo: “L’allegoria in cui mi dibatto per fortuna è piena di tempi morti, di rallentamenti, ma anche di ellissi repentine, di balzi travolgenti in avanti, o di sgambetti all’indietro”.
In tal modo cempennano (parola sua) le storie, perché costui ci porta a conoscere i compagni d’avventura: e si va da tal Onorato Casamagna letteralmente imbambolato, nel senso che si accompagna a una bambola gonfiabile sempre più invadente, al delinquente sfinito Semenzani Tullio; da Nathan il sacrestano che si converte al nudismo a Franchino Spaventa dalla lingua biforcuta, anche qui letteralmente; dallo scrittore Gabriele Angous, guarda caso l’Uomo Malato anzi “il paradigma dell’uomo malato”, a Ollssen che da sempre si è sentito bene “senza gli altri”. In più l’ex comico Marius Duprez, che con una raffica di barzellette meno che insulse ci indica che se i meccanismi della comicità sono stati gli stessi per millenni, e viceversa oggi si ride di cose che non hanno mai fatto ridere nessuno, qualcosa vorrà dire.
Tutti “nomi parlanti” come si vede, di quelli che rendono pressoché superflua ogni introspezione, e tutti esseri umani già passati, scaduti, abbacinati e nemmeno più stupefatti, lievemente febbricitanti, con qualche guasto lieve o lieve slittamento di senso a cui sono indifferenti più che rassegnati, e un destino che pure lui appare segnato e scaduto, un destino baro ma camuffato da contingente e necessario, da logico addirittura, che li fa incontrare per l’ultimo tratto di strada.
Pare che una lieve distonia sia stata sufficiente e candidarli, il mutamento sembra ci sia stato già prima che siano stati chiamati a raccolta, la cesura, il salto di continuità che conferma la decisione, la banda dispersa si ritrova verso una direzione che fa finta di essere sconosciuta. Sbandati e capricciosi come fili di una trama già scritta, i sodali occasionali si avviano dove non ci si può perdere perché ci si è già persi prima, da qualche parte che non ci è dato sapere. Sembra di stare in un bislacco e accurato disegno buzzatiano, con dentro un essenziale percorso calviniano, e qualche deviazione slapstick del primo Celati. Ci stupiamo di leggere o di riconoscere qualcosa che ci pare di aver sempre letto o sognato, o forse meglio che avvertiamo come un presagio che solo alla scrittura possiamo confessare di avere. Una storia “di un’ovvietà che tramortiva” come sempre quando a suggerire è il buon senso, quello oggi accantonato con cura. In più il delirio ha la propensione a fingersi logico, come dimostra la numerazione a doppia cifra di capitoli e sezioni.
E difatti di un viaggio verso l’inevitabile si tratta, a cui conduce una logica talmente derazzata e presuntuosa che nemmeno ha più bisogno di ritrovarsi nell’esperienza. Nemmeno ci si può chiedere perché, forse si sono slacciati i bassi istinti, forse “quelle bestie luride (…) ci hanno costretti a diventare simili a loro, anche noi sordidi, rumorosi, tutto un alternarsi di scatti d’ira e pigrizia untuosa”. Sembra insomma che il dramma sia già avvenuto pure se non ce ne siamo accorti, ora possiamo avviarci, ora gli elementi ci sono tutti, su un pullman e poi un furgone che per l’appunto somigliano a carri allegorici.
Nemmeno si strugge il racconto, nessuna “insensata indulgenza verso il passato” mentre va per andare avanti tra rovine di esplosioni inspiegabili, stanze con dentro segreti impronunciabili, strane bestie ferite, case a forma a salsiccia che diventano ossessioni distruttive, equivoci, indecisioni crescenti e imbarazzanti, relitti di carovane precedenti e forse identiche e in più la sensazione che “siamo già passati di qui”. la temperatura però non aumenta mai, si respira il “gusto acido e bruciaticcio” del cupio dissolvi, si va con “una sorta di fatalistica disinvoltura, di irresponsabile levità”. E già qualcuno si perde, come nella mirabile e grottesca pantomima horror di Ollssen che restando indietro è costretto a dilazionare l’abbraccio cannibale, lottare contro il torpore suonando il pianoforte.
Magistrale e misurato il racconto cala sull’attesa della fine come un gigantesco uccello preistorico, senza più capire, con le memorie che svaniscono e segnali desiderati dove non ce ne sono più, assieme al paesaggio via via desolato e violento della natura che torna padrona, e allora abbiamo davanti tutti gli squarci, varchi e riflessi estremi, le illusioni selvagge quando riprende possesso di ciò che è sempre stato suo, natura primordiale e finale che si svela pian piano in tutta la sua voracità, e “tutti noi ci stiamo dirigendo verso i lei, che sembra aspettarci”.
Che tutto è già finito da un pezzo non lo ammetteremo mai, come i climatologi che hanno aspettato l’evidenza per dire che è in atto un mutamento esiziale.
(Paolo Morelli, “Il Manifesto” di giovedì 18 ottobre 2012)