Come posso parlare di questo libro senza tradirne lo spirito? Senza banalizzare l’eleganza del tratto, la genialità, la lucidità visionaria? Posso dare un’idea delle mie prime impressioni dicendo che così, senza rifletterci, con un puro meccanismo associativo, o meglio evocativo, mi ha fatto pensare a Auster, a Saramago, a Beckett, ai film di Buñuel. E poi alla pittura di Bosch, di Bruegel e di Dalì. Di Auster mi ha ricordato quel meraviglioso libro che è Nel paese delle ultime cose (già recensito nella rubrica “L’età dell’innocenza”). Se è abbastanza facile, per un bravo scrittore, suscitare entusiasmo con un bel romanzo di formazione, è invece impresa quanto mai ardua riuscire a entusiasmare con un romanzo di de-formazione, che ruota intorno a temi di decomposizione, vecchiaia e morte. Sembra essersi dato da fare, Morandini, per raccogliere materiale particolarmente spiacevole, grottesco e perfino ripugnante, da trasformare in un’opera di rara bellezza. Mi sembra di vederlo sorridere, forse un po’ perfidamente, mentre sfida se stesso all’impresa che sa già vincente, e insieme sfida il lettore a sfuggirne la fascinazione.

L’allegoria in cui mi dibatto per fortuna è piena di tempi morti, di rallentamenti, ma anche di ellissi repentine, di balzi travolgenti in avanti, o di sgambetti all’indietro. Questa varietà di ritmi all’inizio mi stordiva, ma poi mi è parsa un viatico sorprendente a smazzare la brevità della nostra agonia con inaspettate perturbazioni. (…) mi sono preso il mio tempo, ho sminuzzato la mia fuga in avanti, ho indugiato nelle periferie degli eventi, buttato l’occhio negli angoli in penombra delle cose, rovistato nelle tasche dell’esistenza, in cerca di briciole e scontrini da scartocciare con una nostalgia curiosa.

Parabola, metafora, allegoria? Anche, ma ciò non tragga in inganno. È soprattutto racconto, narrazione di storie. E tratta di personaggi veri, anche se improbabili. Veri nella loro solitudine, nel loro essere schiacciati dall’assurdità che è dentro e fuori di loro. Solitudini diverse, specchi di follia che messi insieme si rafforzano e si amplificano. Vite senza senso che acquistano nel loro intersecarsi il senso di un viaggio dantesco. I ritratti dei personaggi sono incisivi, non tanto per una plasticità caravaggesca, quanto in virtù di una carnalità decomposta come quella dei quadri di Francis Bacon. L’ironia che permea tutto il romanzo gli dà talvolta il piglio beffardo dell’opera buffa. Del resto l’uomo che si rende conto appieno dell’insensatezza della vita, che può fare se non riderne?
Consiglio al lettore di non cercare una chiave di lettura che spieghi, perché non c’è spiegazione all’assurdo. L’assurdo si può – forse – descrivere, di certo si può evocare, ma per sua natura non può essere spiegato. Morandini ha avuto il coraggio di abbandonare pretese razionali e dar voce all’incubo, ed è proprio dentro all’incubo che il lettore deve lasciarsi condurre.
Tentare di riassumere l’abbozzo di una trama è impossibile quanto inutile. Basti sapere che vi si muovono uomini in cerca di qualcosa, senza sapere fino in fondo di che si tratti e perché. Procedono a volte separatamente a volte insieme, in ambienti infidi, in territori sempre più crepuscolari. L’incontro con altri esseri umani appare a prima vista rassicurante, ma subito apre nuove incognite angosciose. Ognuno potrebbe diventare per gli altri vittima o assassino, preda o cannibale. L’uomo dalla lingua biforcuta, l’uomo che va in giro nudo, il viaggiatore che si accompagna a una bambola gonfiabile, il malato terminale, il comico fallito, il truffatore, il pianista che tenta con la musica di tenere a bada i mostri (ma fino a quando?) sono soli alcuni esempi. E al di là di ciò che si può vedere c’è l’ignoto, l’inspiegabile, quello che non si vede e perciò fa paura.

Ci avevano messo a dormire in quel letto matrimoniale vasto e alto, come due bambini, come Stanlio e Ollio. Il materasso, concavo nel mezzo, ci faceva scivolare l’uno verso l’altro nel sonno, e talvolta, in piena notte, quando ci destavano i versi della creatura, ci sorprendevamo vicendevolmente stretti, come a proteggerci dal buio. Seguivano proteste, scuse e, non confessato, il permanere di una sensazione di piacevole tepore, di abbraccio soccorrevole.
“Non è detto che sia una bestia” dissi la mattina a Semenzani, per rassicurarlo.”

Di sicuro c’è che Morandini scrive bene. La sua scrittura, assolutamente attuale, è però nella tradizione della migliore letteratura italiana. L’assoluta naturalezza con cui si serve della lingua non deriva da un getto spontaneo, ma anzi è frutto di una cultura densa e raffinata. Come un virtuoso del fioretto, gioca con le parole e porta a fondo le sue stoccate con grande intelligenza e sensibilità. E si concede una straordinaria libertà nel seguire i percorsi della fantasia senza pretese di razionalità o compromessi (complimenti anche all’editore, che non ha voluto mortificarne l’inventiva in nome di criteri più o meno commerciali) creando un’opera assolutamente originale.
(Giovanna Repetto, http://www.paradisodegliorchi.com)

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