Giovanna Repetto: Cominciamo dunque con la domanda più assillante: è mai esistito un musicista a nome Dvoinikov, o comunque un personaggio reale nascosto dietro quel nome?

Rafail Dvoinikov non è mai esistito. La sua è una biografia immaginaria, come immaginari sono tutti gli altri personaggi maggiori del romanzo, da Prescott a Galavamov a Klyuev… Le vere personalità storiche rimangono defilate, sono citate qua e là, magari nelle note a piè di pagina, ma non entrano mai da personaggi nel romanzo.

E io che l’ho perfino cercato su internet…

Se qualche lettore ha pensato a Dvoinikov come a una figura reale e ha cercato informazioni su di lui, e magari le sue musiche, non può che farmi piacere. Vuol dire che il personaggio è vivo, è verosimile. Anche a me piacerebbe ascoltare le sue composizioni – mi accontento di quelle dei compositori a cui mi sono rifatto.

Qualche esempio?

Innanzitutto Shostakovich e la scuola che si è formata attorno a lui, in particolare Galina Ustvolskaya (il suo “Concerto per pianoforte, archi e timpani” del 1947 avrebbe potuto essere opera di Dvoinikov, e la sua vita nell’isolamento fino a una tardiva riscoperta sembra proprio quella del mio personaggio). Citerei ancora l’ultimo Stravinsky, quello che si accosta un po’ legnosamente alla serialità. E poi tutti quei minori e minimi del Novecento sovietico che si sono barcamenati tra esigenze celebrative e prudente espressione di uno stile personale: Dvoinikov (che in fondo per sua natura è un minore, nonostante Prescott cerchi di dimostrare il contrario) è tutto lì, in quelle tirate retoriche in cui talvolta, quasi per caso, esplode l’imprevisto, sfuggono nuclei di irriducibile personalità.

Anche Prescott è musicista.

La musica di Ethan Prescott, il giovane americano, l’ho immaginata sul modello delle composizioni di autori colti e brillanti come John Corigliano e Ned Rorem.

Si ha l’impressione che la musica occupi un posto molto importante nella tua vita.

Ho con la musica un rapporto stretto: in passato l’ho praticata, l’ho studiata, anche se non sistematicamente quanto avrei dovuto; ora mi limito ad ascoltarla, collezionarla, pensarla. Sulle revisioni e le trascrizioni che lo stesso Stravinsky ha dato delle proprie opere mi sono laureato, molti anni fa – ecco una prima fonte del mio Rapsodia su un solo tema, forse la più importante.

C’è un rapporto fra il tuo modo di sentire la musica e la tua creatività letteraria?

Rifletto spesso sul senso che ha la musica per me, o sul mio approccio alla musica. Essenzialmente la “sento” come una struttura, come un complesso sistema di relazioni e di contrasti, come un’articolazione di rimandi interni ed esterni, come una sintesi tra controllo e caso. Tendo a sentire allo stesso modo anche un’opera letteraria; o meglio, quando scrivo tendo a organizzarmi seguendo un’idea di sviluppo che potrebbe assomigliare a quella di una composizione. Se non altro, mi piace pensarlo.

Nella mia ingenua ricerca su Dvoinikov ho seguito tracce che mi hanno riportata a te. Ho trovato addirittura un commento a una sonata di Dvoinikov, tratto dalle carte inedite di Prescott. Mi sembra che per te sia diventato una specie di gioco.

Mi sono affezionato a Dvoinikov e alla sua musica immaginaria, e soprattutto a Prescott e al suo sguardo analitico e insieme ammirato sulle composizioni del vecchio russo. Così ho cominciato a disseminare qua e là sul web pagine che non erano entrate nel romanzo per motivi di equilibrio e di spazio, o che mi sono venute in seguito. Detto tra noi, mi piacerebbe farlo ancora, ho pronte altre due o tre paginette su composizioni immaginarie. È un gioco, sì, in cui alimento l’equivoco sull’esistenza di Prescott e Dvoinikov attribuendo al primo pagine che sono mie. La mia voce e quella di Prescott in fondo si assomigliano molto. E la natura frammentaria e incompiuta del romanzo si presta a questo tipo di proliferazione.

E il personaggio di Galavamov? Certamente Dvoinikov e Galavamov sono due prototipi, ma potrebbero corrispondere a persone precise su cui ti sei documentato.

Ti dirò, nell’immaginare Galavamov mi sono mosso con un’irresponsabile libertà. All’inizio avevo in mente soltanto una figura di cattivo, un persecutore cocciuto e mediocre. Le storie, è banale dirlo, hanno bisogno di cattivi. La particolare ambientazione storica mi ha spinto a far vestire a Galavamov i panni del burocrate, e ne ho fatto il capo di una di quelle commissioni che affliggono con i loro diktat gli artisti in ogni regime da sempre. Man mano che andavo avanti nell’immaginarlo, e nel dotarlo di una biografia, mi sono reso conto che ne stavo facendo una specie di “doppio” malvagio, al centro di un gioco di specchi che duplicava quella che era stata la storia dell’Unione Sovietica. La sua Commissione dei Musicisti è un doppio immaginario della vera Unione dei Compositori. Lui stesso è un duplicato (e insieme una caricatura) di figure come Zhdanov e Khrennikov – di quest’ultimo soprattutto, con la differenza che Khrennikov era un compositore non spregevole, mentre Galavamov è proprio dozzinale, se non peggio. Proprio per questi motivi, qualcuno mi ha fatto notare che Galavamov è una figura di persecutore a modo suo “gotica”.

Anche i verbali degli interrogatori hanno l’aria di documenti veri.

Li ho scritti di getto, basandomi su reminiscenze di quanto avevo letto molti anni fa. Sono state le pagine più facili di tutto il romanzo. Galavamov in fondo era già lì, pronto, rappresentava tutto quello che mi spaventa di più in una persona che ha del potere. Mettermi nei suoi panni e scoprire quanto sia facile infierire su un innocente, quanto sia facile e anche divertente accanirsi nell’esercitare un potere coercitivo anche in assenza di reali motivazioni, mi ha inquietato. D’altra parte la storia, quella vera, da sempre è prodiga di esempi di questa tenace dedizione alla crudeltà. Solo con le stesure successive ho integrato i miei interrogatori con dettagli desunti da testimonianze vere, come le lettere di Shostakovich o gli scritti del pianista Heinrich Neuhaus. Ma non ho dovuto cambiare gran che: sia perché mi interessava mantenere una colorazione grottesca, tra farsa e tragedia imminente, sia perché gli interrogatori sono davvero più o meno così, se non peggio.

L’aspetto che mi ha forse più impressionata nel libro è la grande verosimiglianza, per cui finivo per calarmi nel testo come in una vera biografia. Se è tutto finto sei davvero, come dico nella recensione, un maestro del trompe-l’oeil.

Volevo proprio giocare insieme con il lettore attorno a questo equivoco. “Rapsodia” sin dal titolo e dal sottotitolo “finge” di essere qualcosa che non è. Anche l’immagine della copertina, così severa, sembra rimandare a un trattato o a una biografia più che a un romanzo. E anche le prime pagine di quell’introduzione che vuole parodiare pagine analoghe di un saggio musicologico, sembrano alimentare l’equivoco, spero senza affliggere troppo il lettore o scoraggiare nessuno. Basta poco per accorgersi che Rapsodia è un romanzo, e che la minacciata severità è in realtà leggerezza (ironica e malinconica).
Credo poi che a rendere verosimile ciò che racconto ci sia anche quella certa dose di incompiutezza che è propria della vita. Non viviamo trame da romanzo, le nostre esistenze così come sono sarebbero pessimi plot. In Rapsodia non assistiamo proprio ad avventure, e nemmeno a intrecci. Le vite dei personaggi si trascinano senza grossi colpi di scena (se escludiamo le ultime pagine), talvolta girano un po’ a vuoto, finiscono per assomigliarsi… Più che le vite, è l’incastro delle pagine e il montaggio dei piani temporali a rendere vivace la lettura. Certo, poi c’è stato il lavoro di documentazione, ma ti assicuro che per me non è stato così centrale, anche perché Rapsodia su un solo tema non è propriamente un romanzo storico, e non volevo che lo diventasse.

Come è nata l’idea del romanzo?

Avevo in mente (da un bel po’ di anni) di scrivere una storia sulla falsariga dei dialoghi che il vecchio Stravinsky ha avuto negli Stati Uniti con Robert Craft. Mi è sempre piaciuta la forma dialogica, soprattutto quando si confrontano due personalità diverse; e mi interessava in particolare dare vita a un personaggio di vecchio compositore, che parla a ruota libera, si concede qualche malignità, è colto da amarezze e malinconie, talvolta diventa lubrico e quasi infantile – una figura dimenticata e lontana, però, molto diversa dallo Stravinsky cosmopolita e compiaciuto che si confida con il giovane Craft. Un po’ alla volta, mentre il romanzo prendeva forma, è emerso il tema del condizionamento dell’espressione artistica da parte del potere – di qualunque potere. Era inevitabile che saltasse fuori questo elemento, vista la collocazione storica e geografica di Dvoinikov: ma è stato interessante assistere anche alla presa di coscienza, da parte del giovane americano, dei condizionamenti che impone anche a lui (sottilmente, in modo non cruento, ma non meno compulsivamente) la società di mercato.

E l’altra protagonista, la musica…

Sì, un’altra motivazione alla base del romanzo è stata il desiderio di raccontare la musica, in particolare la musica colta del Novecento: non solo perché “raccontare” (o descrivere, o trasformare insomma in parole) la musica è una sfida affascinante, ma anche perché volevo condividere una passione. Insisto: Rapsodia su un solo tema non è un’operazione snobistica o elitaria, non vuole rivolgersi alla sola ristretta cerchia di melomani e tener lontani tutti gli altri. Per me la musica di Prescott, Dvoinikov, o meglio di tutti i compositori che hanno ispirato queste figure, è fonte di stupori e piaceri da cui vorrei che nessuno rimanesse escluso.

Che pensi dei rapporti fra le diverse forme artistiche, come la letteratura e la musica?

È un tema su cui continuo a riflettere, sull’onda del romanzo, ma anche perché su ‘Letteratitudine’ Massimo Maugeri mi ha invitato mesi fa ad animare un forum proprio sui rapporti tra musica e letteratura. Credo di avere una natura portata a cogliere le sinestesie. D’altra parte, se non avessi creduto nella capacità della parola scritta di suggerire la musica, sia pure con molta approssimazione e un uso abbondante del linguaggio figurato, non avrei scritto Rapsodia su un solo tema. Allo stesso tempo, però, tendo a vedere le forme artistiche come separate da una sorta di irriducibilità dei diversi linguaggi, anche se la collaborazione tra le diverse discipline ha dato luogo a ibridi eccelsi (la musica vocale, il melodramma…). La musica, soprattutto, la concepisco come un’arte che esprime essenzialmente se stessa, che basta a se stessa. Sono note, solo note (lo faccio dire anche a Dvoinikov, più di una volta). Non sono immune però da un approccio diciamo più sentimentale alla musica. Prescott dà voce nel romanzo a questo approccio che non esclude il contributo emotivo di chi ascolta.

(A cura di Giovanna Repetto, http://www.paradisodegliorchi.com/Claudio-Morandini.35+M5202b945896.0.html)

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