Fabiana Piersanti: Da un punto di vista linguistico si può notare, nei tuoi scritti, un uso quasi manieristico del linguaggio e delle sue regole; un lessico ricercato, una sintassi estremamente ordinata e cesellata – ordine, questo, che spesso entra in contrasto con lo scompiglio emotivo dei tuoi personaggi. Perché investi così tanto sulla lingua?

Io spero che il mio stile non suoni già come una maniera al secondo libro: è vero, la ricchezza lessicale nasconde in realtà tic linguistici, ossessioni, ricorrenze, e una specie di desiderio di ordine costringe le frasi a riempirsi di legami logici. Ma quest’ordine spesso si incrina (tutti quei trattini), il ritmo si spezza. È la lingua che rivela un modo di percepire il mondo – dei miei personaggi, e anche mio, direi. È il tentativo (frustrato, ma eccitante, e necessario) di dominare il caos. Paradossalmente lo scompiglio emotivo ha bisogno di ordine per essere reso nella sua complessità, nella sua profondità. Una lingua che si limiti a riprodurre il marasma emotivo ne enuncia solo l’aspetto dinamico, ne esibisce la confusione: rischia di non andare tanto più in là di: Ehi, guardate quanto sono confuso!
So che cosa non vorrei essere: forzato, goffo, approssimativo (vago sì, invece, all’occorrenza, ma è diverso). I veri manieristi oggi sono chi scrive come se traducesse, che so, Lansdale o Ellroy, e chi applica le strategie espressive della scuola di scrittura alla moda che ha frequentato – lo dico senza malignità, bada.

Per quanto riguarda Le larve qualcuno di recente ha accennato – per il vero in modo un poco distratto – a lontane ascendenze verghiane. In realtà una sorta di “ciclo dei vinti” sembra delinearsi nei tuoi romanzi anche se, a differenza dei personaggi verghiani, soggiogati dall’invincibilità della propria condizione sociale, i tuoi sono soverchiati dalle passioni.

Non pensavo a Verga prima, ma riconosco che in lui, come anche, che so, in Capuana, in De Roberto, nel primo Pirandello, ci sono una sensibilità alle cose e agli uomini e una lingua consapevole e ricca che ammiro senza riserve. Ogni rimando a quella stagione letteraria non può che lusingarmi, anche se fatto con tutt’altra intenzione. La lingua di Verga in particolare è un’invenzione fertilissima, e che importa se è fondata sull’illusione che possa essere uno strumento di analisi scientifica della verità umana, sociale o storica? Lo sguardo di Verga sui suoi personaggi, poi, è vitale, complesso: vuole essere distaccato ma è vicino, sta addosso. Dice e non dice. Rivela e glissa. Studia gli uomini dominati da passioni forti come ossessioni (en passant, La lupa è uno dei racconti più angoscianti e misteriosi di possessione che io conosca).

Sia in Nora e le ombre che ne Le larve gli elementi narrativi vengono rappresentati dal punto di vista del protagonista, dunque attraverso il filtro delle sue insicurezze, della sua capacità critica e dei suoi ricordi. Il lettore viene costantemente stimolato, in tal senso, a sospendere il giudizio di fronte agli accadimenti che si vanno via via delineando. Perché è così importante l’esercizio del dubbio?

Credo che sia il mio piccolo contributo politico – lavorare con i dubbi, indagare attorno al sospetto che le cose non siano così semplici, solide, ferme come tutti oggi vorrebbero: Ritengo sia importante oggi, per chi scrive, dotarsi di uno stile che si faccia carico delle complessità del mondo (l’ho anche scritto da qualche parte). Troppi si danno a presentare la semplificazione come una soluzione, la via più facile come la più giusta. In un mondo in cui tutto è così rassicurante, proprio perché classifica, incasella, categorizza (anche, che so, l’horror, che procede per codificazioni e si accontenta spesso della prevedibilità, o anche le inchieste di denuncia, che attribuiscono colpe e meriti con sicurezza), tutto sommato esercitare i dubbi e praticare la vertigine dell’inaspettato e dell’inclassificabile sembra un piccolo contributo utile. Non è una posizione particolarmente originale o coraggiosa, me ne rendo conto, ma è già qualcosa, no?
La sospensione del giudizio del lettore è prima di tutto la mia: sono troppo occupato a raccontare le storie, a vederle crescere, per trarne delle riflessioni morali. Mostro (svelo, spesso alludendovi soltanto) i fatti nel loro svilupparsi, come mi sono cresciuti tra le mani. La sorpresa di chi legge, il disorientamento, è, ripeto, simile a ciò che provo io nel seguire le vicende dei miei personaggi, nel vederli cambiare, contraddirsi, farsi male, comportarsi in modo inopinato. Mi pare un modo tutto sommato onesto di lasciare al lettore il suo spazio, le sue emozioni e le sue reazioni.
È curioso che qualche recensore abbia notato un intento moralistico in ciò che scrivo, nel mio sguardo sugli eventi, perché non lo sento come una priorità della letteratura. Se vuoi, però, posso suonare moralistico (in senso classico, spero) quando, dopo aver dubitato che il bene possa avere la meglio, smonto il male e ne mostro la corrività, la mediocrità, l’insulsaggine, l’ambiguità, l’assenza di glamour. Credo che sia questa ambivalenza di fondo ad affascinare alcuni lettori e ad urtarne altri, oltre che a provocare interpretazioni così diverse.

I personaggi di estrazione sociale più semplice o comunque quelli più fragili cadono quasi subito vittime delle proprie passioni. Sembra tu ti diverta, invece, a smascherare le nefandezze di quelli dotati di un intelletto un poco più fine e che, per questo, rimangono in bilico tra gli istinti più intestini e il disperato bisogno di dominarli. E’ il tuo modo di dimostrare pietà verso i primi?

Le reazioni emotive dei lettori, spesso intense, mi hanno costretto a riflettere a posteriori sui miei sentimenti nei confronti dei miei personaggi. È vero, descrivo uomini combattuti tra la forza di passioni e pulsioni e il bisogno di dominarle, e uomini che nel tentativo di spiegarsele costruiscono a propria giustificazione complessi alibi che suonano come menzogne colossali. È quello che fa il narrante de Le larve, con una certa capacità retorica; è anche quello che altri personaggi maschili fanno in Nora, con insopportabile goffaggine. La fragilità di fronte alle proprie pulsioni è un tema potente: permette di far sentire la voce primitiva che ci parla dentro, i principi del soddisfacimento del piacere, del desiderio, della prevaricazione, ma anche l’affezione, la dipendenza. Passiamo la vita a mediare tra questi bisogni oscuri e la necessità di un controllo sociale e culturale; se il controllo riesce, non c’è storia. Se nasce il conflitto, la storia viene da sé. So di non dire niente di nuovo, ma so che continua a funzionare. Sospetto anche che nessuno di noi sappia esercitare un perfetto controllo sul se stesso più sfuggente – il che ci rende tutti potenziali protagonisti da romanzo, oltre che reali protagonisti di romanzi vissuti davvero, per la verità un tantino tirati per le lunghe, e senza un happy end convincente. In generale, proprio per le vittime delle mie storie (le Nore, le Aldine, anche i Saveri per certi versi, o gli Isacchi…) provo una sorta di compassione, anche se intellettualmente mi sento più vicino ai loro carnefici – ma ti prego di non equivocare.

Perché questa attenzione all’incapacità umana di dominare i propri impulsi?

Perché le storie migliori nascono da lì, da quel potente e confuso dinamismo! Tentativi, fallimenti, bastoni fra le ruote, cattivi, cattivi ancora più cattivi, ostinazioni, fissazioni e rinunce brucianti.

So che sei un appassionato di musica classica. Da quest’ottica la lettura dei tuoi romanzi svela molti riferimenti, come dire, “sinfonici”: annunci temi, li sospendi, li sviluppi, lasci che l’evocazione di un sentimento si riduca a sottofondo corale per poi riprenderlo con impeto e arricchito di variazioni; alcuni dialoghi, poi, hanno un ritmo che ricorda il “fugato”…

In effetti sento un romanzo come un complesso gioco di temi e di timbri che a volte mi fa pensare a uno sviluppo da sinfonia (o da poema sinfonico, da rapsodia, o da melodramma, vedi tu). La maturazione di certe situazioni può far pensare al procedimento del tema con variazioni; altrove l’incrocio di soggetti e concetti di natura contrastante può rimandare a qualcosa di simile alla forma-sonata. Il ritornare di altri temi in punti diversi della narrazione può ricordare il leitmotiv alla Wagner… Sto parlando però di temi in senso metaforico, perché lavorare con le parole, il lessico, la retorica, gli effetti sonori, il ritmo delle frasi, si può paragonare alle tecniche compositive solo con una buona dose di approssimazione. Un vero musicista, temo, avrebbe da eccepire su questa analogia tra narrativa e composizione; e ammetto, nel tesserla, una buona dose di ingenuità da amateur, da melomane con un’infarinatura teorica. A volte, ho l’impressione che il lavoro di assemblaggio delle pagine in una forma più ampia e dotata di coerenza sia più simile al lavoro di un produttore in sala d’incisione che a quella di un compositore classico (penso a Teo Macero che taglia, cuce e mette ordine nel magmatico materiale registrato da Miles Davis negli anni settanta, ad esempio). Comunque, questo ragionare in termini compositivi mi aiuta nell’orchestrazione dei capitoli, nel dosaggio dei colori – o dei timbri -, nell’articolazione dei motivi, nella dinamica: è una sensibilità che mi porta a privilegiare altri aspetti rispetto, che so, alla pura solidità della trama. In particolare, mi piace molto lavorare sugli effetti che hanno sul ritmo della narrazione diverse tecniche. Accelerare, decelerare, trattenere il respiro, fermare il tempo, tornare indietro, prendere la rincorsa, balzare in avanti, imbambolarsi, scuotersi, decelerare, accelerare. Non so se sia musica, ma certo è dinamica.

Quali sono le fonti dei tuoi preziosismi linguistici e come ti sei costruito nel corso del tempo un repertorio lessicale e stilistico tanto ricercato?

Davvero, non credo di utilizzare tutti questi preziosismi. La mia scrittura è una continua censura delle parole che sarei tentato di usare ma che ormai mi suonano forzate; la ricercatezza sta nel tono giusto, in una specie di classicità – e di linguaggio lontano dalle contaminazioni della contemporaneità, anche se questo vale soprattutto per Le larve, mentre Nora viveva del continuo sporcare la lingua con il gergo di oggi, o con un suo surrogato.
Passo un bel po’ di tempo a togliere: la mia scrittura ha un’esuberanza che va frenata. Non voglio uno stile caldo, scomposto, urlato; lo voglio freddo, controllato – ho storie piuttosto complicate da raccontare, non voglio che la sovrabbondanza distragga da quelle storie. Tento di coniugare la complessità con la chiarezza, Landolfi con Calvino.
Dietro alle atmosfere dei miei due romanzi pubblicati (e dei prossimi, anche) stanno letture (meglio: echi di letture antiche, e qualche suggestione più recente) che non rimandano ad autori di successo: voglio dire, Landolfi è l’esatto contrario dello scrittore attento alle strategie di marketing, Csàth è quasi tutto inedito o fuori catalogo…

C’è, nella tua ricerca, la volontà di distinguerti dai best-seller di consumo?

Non per partito preso: non credo di essere capace di strutturare un plot solido, dosando i colpi di scena e calibrando gli ingredienti come il pubblico e certa industria editoriale si aspettano. Certo non aspiro nemmeno a farmi la fama di autore difficile, tanto meno mi piace sentirmi considerato per pochi. Però è il mio modo di raccontare storie: le accumulo, le mescolo, cerco un tono, dei colori, e ci metto anni. D’altra parte, non ho gli scrittori di best seller tra i miei modelli, anche se ne rispetto molti per la capacità di lavorare sulle emozioni e sulle aspettative di masse di lettori.

I tuoi romanzi delineano panorami letterari impregnati di atmosfere gotiche e di mistero; Nora e le ombre è stato definito una ghost story, addirittura. Le larve è stato invece volutamente presentato come una contaminatio di generi, quasi a voler ribadire la tua propensione a giocarci e a non lasciartene invischiare. Credi che i generi letterari siano un limite alla creatività?

Alla base di quei riferimenti ai generi c’era un vezzo, ora posso dirlo: la speranza è sempre quella che il lettore accorto dica: ma non è una ghost story (non è solo una ghost story), non è un semplice gioco sui generi! La speranza (ecco un tic linguistico inaspettato di questa intervista) è che a quel lettore il risultato finale suoni come qualcosa di più della semplice somma degli ingredienti: il valore aggiunto potrebbe scaturire dall’attrito tra due generi, o stili, come in Nora.
Il romanzo non può fare a meno di ammiccare ai generi, o ai sottogeneri, che fanno parte della sua storia e della sua natura di organismo ibrido, adattabile, che può diventare tutto e il suo contrario; ma non credo che obbedire alle convenzioni di un genere possa garantire la riuscita di un buon romanzo. Dal mio punto di vista, i generi sono riferimenti importanti soprattutto se scrivendo li si può buttare all’aria per vedere che succede. Penso al romanzo come a una sorta di mondo della libertà: se è vero che possiamo ricondurre tutte le storie possibili a un numero ristrettissimo di situazioni base, godiamo della libertà di raccontarle in un’infinità di modi diversi, ricombinandole e traducendole come ci pare. A ragionare solo in ossequio ai generi, in fondo, si prendono per leggi quelle che sono solo convenzioni.

Nell’era dell’autobiografismo e della letteratura di consumo credi ci sia ancora spazio per creare e proporre una reale alternativa letteraria?

Credo sia possibile coltivare un proprio spazio lontano dalla logica dei grandi numeri e dei condizionamenti industriali, lavorando sull’originalità della propria voce e su un’idea di letteratura alta – immagino che non dia di che vivere, ma non stiamo parlando di questo, giusto? Ho finito da poco di leggere Verderame di Michele Mari: ecco un outsider di grande talento, che mi pare indifferente alle mode o alle direttive editoriali. Quest’estate sono incappato nella prosa di Giuseppe O. Longo, che per non venir meno alla sua integrità espressiva ha rinunciato alle grandi case. E potrei farti molti altri esempi. Però forse non è il caso di separare i due mondi, di vederli contrapposti, incomunicabili. La letteratura di consumo è mille cose diverse, e accanto a prodotti occasionali e senza futuro ci sono opere ingegnose, ricche di idee e di lingua felice. Non sempre d’altro canto l’isolamento coincide con un talento meritevole… Dietro a tutto questo, rimane il solito, grosso problema: si legge poco, si leggono le solite cose, si cercano le stesse sensazioni, ci si è abituati a una lingua veloce e anodina, non ci si vuole sforzare troppo a capire.
Quanto all’autobiografismo, una mia particolare idiosincrasia mi costringe a tenermene lontano come da una specie di malattia infantile della narrativa.

Sempre più registi – non solo cinematografici – attingono alla letteratura per offrire la propria trasposizione. Roberto Faenza, per esempio, sta per approdare nelle sale con il nono film tratto da un romanzo. Qual è per te il rapporto tra letteratura e cinema e letteratura e teatro? Ti ha mai solleticato l’idea di questo sviluppo per le tue opere?

Per natura sono portato a una concezione teatrale delle scene. Le prime prove narrative, che è bene che restino inedite, erano quasi completamente pensate in interni, e fondate su dialoghi articolati come nelle scene di un atto di commedia. Si trattava probabilmente della conseguenza della decina d’anni passata a scrivere radiodrammi, immagino, oltre che delle letture intense della letteratura teatrale del novecento (Pirandello, Ionesco, Pinter…). In Nora mi sono costretto a immaginare qualche scena in esterno, e in alcune situazioni ho proprio sbattuto fuori di casa i personaggi: ma è vero che molto del clima opprimente del romanzo nasce dagli ambienti chiusi entro cui questi si muovono. Nelle Larve il contrasto tra dentro e fuori (e poi tra sopra e sotto), e in un certo senso tra teatro e cinema, si accentua; e anche le scene in interno sono assai meno condizionate dal dialogo, sono piuttosto raccontate dalla voce del narrante, o pensate. C’è, se vogliamo, una maggiore compatibilità con il cinema, e una visione più cinematografica, se non altro degli ambienti e dei paesaggi. Detto questo, non ho idea se Le larve potrebbe prestarsi a un adattamento cinematografico. Non l’ho scritto pensando al cinema – avevo rimandi letterari in testa. Però, in via ipotetica e stando al tuo gioco, posso dire che sarei felice di essere smentito. Ne verrebbe fuori, forse, un film pieno di silenzi e di espressioni indecifrabili alla Daniel Auteuil.

Un’anticipazione sulle tue prossime pubblicazioni.

Conosco scrittori che per scaramanzia rifiuterebbero qualunque accenno di risposta a questa domanda. Ma insomma, ho un paio di romanzi pronti, molto diversi rispetto ai precedenti, e molto diversi l’uno dall’altro. Che diventino poi libri pubblicati, me lo posso solo augurare. Nel primo racconto di musicisti e di libertà di espressione in diverse epoche e contesti storici; nel secondo immagino situazioni picaresche e via via più irreali vissute da un gruppo di personaggi piuttosto strampalati. Di riconoscibile, di mio, si potranno trovare ironia, crudeltà, rimuginii, senso di disfatta e di deriva, conflitto, ambiguità, incongruità, passioni e freddezze.

(A cura di Fabiana Piersanti, http://www.lettera.com/articolo.do?id=14856)

  • Share on Tumblr