MORANDINI – La solitudine è comicità tenerissima

Adelmo Farandola, il protagonista del nuovo romanzo di Claudio Morandini Neve, cane, piede, vive lontano dal consorzio umano, in un vallone «brutto e pietroso» delle Alpi, d’invero pieno di valanghe e in primavera e autunno «straziato dai torrenti». Adelmo non vuole altro che vivere la sua vita di montagna, quasi ferina, scandita dal passaggio delle stagioni. Per tenersi ancora più lontano dagli odiati uomini, d’estate si spinge fino a un antico bivacco abbandonato, in cima a un colle tra le pietraie, da dove scaccia a sassate i rari escursionisti.
Scende in paese solo guidato dalla necessità di fare provvista per l’inverno, e per il resto ha come unica compagnia un cane, con il quale parla, e che a sua volta gli parla. Sì, perché la forzata solitudine di Adelmo ha di questi effetti collaterali: animali che palano con lui, ragionano, litigano; voci che risuonano nella sua mente, e la memoria che tira brutti scherzi, con amnesie clamorose. Finché un giorno di primavera il vecchio eremita vede spuntare un piede d’uomo da una valanga, e decide di aspettare il disgelo, per scoprire a chi appartenga, mettendosi a vegliare su quel piede e difendendolo dai corvi. Un dubbio atroce lo attanaglia: che quel piede appartenga a qualcuno che ha conosciuto, qualcuno che lui stesso abbia potuto uccidere senza ricordarselo. Attorno a questo enigma che lentamente si scioglie insieme alla neve, Morandini costruisce un romanzo breve impeccabile, capace di forzare schemi e strutture narrative tradizionali, «schivando il galateo del plot», senza però mai cedere di una pagina alla cura del dettaglio, alla precisione lessicale, al ritmo musicale della frase. Sembra voler rinunciare a tutto il superfluo, per concentrarsi sull’essenziale, rivelandosi scrittore di cose e non di parole, ma che dalle parole riesce a ricavare risonanze intime, barbagli lirici, visioni. Insomma, un libro di una scabra e intensa poesia, ma anche di una comicità tenerissima, che ammicca allo Charlot della «Febbre dell’oro». Memore della lezione dello svizzero Charles-Ferdinand Ramuz, Morandini raggiunge così l’obiettivo, non scontato, di cogliere il generale dal massimo del particolare: la vicenda, per quanto apparentemente lontanissima da noi, non è solo la testimonianza della fine di un’epoca (e di un paesaggio, e di un modo di rapportarsi con la natura), ma è anche la metafora della profonda solitudine dell’uomo.

(Fabrizio Coscia, su Il Mattino, 2 dicembre 2015)

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