Un piede, un cane che parla e il senso della vita
Descrizioni realistiche e grottesche per un romanzo leggero e durissimo

Adelmo Farandola abita in un vallone isolato delle Alpi. Quando la neve si alza a coprire quasi del tutto la baita nella quale vive, c’è silenzio, quando la primavera avanza e la neve scende, anche. È una solitudine alla quale ci si abitua se si abita in montagna, allora ogni gesto diventa rito e ci si dimentica del passare dei giorni. Quand’è stata l’ultima volta che è sceso in paese a fare compere? Forse ieri, forse un anno fa. E perché, quando la commessa lo contraddice ricordandogli che appena una settimana è passata dall’ultima volta che ha fatto spesa, non un mese, il suo fedelissimo cane tace facendo finta di niente? Semplice, gli dice l’animale: perché nessuno crederebbe mai a un cane che parla.

La lingua del cuore
E parla molto, nel bellissimo romanzo Neve, cane, piede di Claudio Morandini, questa voce straordinariamente vivace, intelligente, a tratti commovente come quando, con il passare del tempo e delle stagioni, non verrà riconosciuto da Adelmo, sempre più smemorato: «Non si dà pace il cane, raspa disperato la terra, cerca di entrare carponi. Ma da dentro Adelmo Farandola lo scaccia, minaccia di sparargli, lo maledice, lo ripudia».
Parla la lingua schietta del cuore propria delle creature pure. È il cane, compagno di solitudini e passeggiate, a fiutare un giorno qualcosa sotto la neve in disgelo. «sento un odore» dice il cane – Senti sempre odori, tu. Sì, ma questo è forte. Che bestia è? – chiede al cane. Il cane zitto. Non sai che bestia è? Non è una bestia – sussurra il cane». Quello che Adelmo Farandola si ritrova tra le mani con sorpresa e orrore, è un piede, un piede umano. A chi appartiene? Da dove arriva? L’arrivo dei corvi costringe Adelmo a cedere una delle sue coperte all’arto per coprirlo e difenderlo, mentre si avvia una indagine fatta di sguardi, di tracce da fiutare, di storie da dimenticare sotto il peso lieve della neve. «Fa pensare, eh? – dice il cane, che fissa imbambolato quell’arto. A cosa? Alla vita, che n so. Quella cosa non è viva. No, appunto, ma proprio per questo… No, va be’, lascia perdere – sbuffa il cane».

Favola
Con una lingua umana e animale perfettamente bilanciata, a tratti cinica, coinvolgente, Claudio Morandini ha costruito un romanzo che più somiglia a una lunga favola nera, in cui la montagna parla come creatura ventriloqua attraverso le voci degli animali.
Un autore capace di alternare descrizioni realistiche e grottesche, ispirato da certi straordinari romanzi di montagna della (ahimè) poco frequentata letteratura svizzera, in particolare a quelli di Charles-Ferdinand Ramuz, o alle opere ancor più aspre di Camenisch, Tuor o Peer.
Un libro che non somiglia a nessuno nel panorama italiano degli ultimi anni, leggero e durissimo.

(Giorgio Ghiotti, su L’Unità, 14 dicembre 2015)

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