La “montagna” dello scrittore valdostano
Terapia della solitudine

«Neve, cane, piede» di Claudio Morandini è il romanzo di uno strano eremita che si misura sul disagio e la fuga dalla realtà. Un libro a volte amaro a volte comico: da non perdere

Per comprendere il nomadismo della scrittura di Claudio Morandini, il suo muoversi tra generi differenti e la sua eccentricità rispetto alla produzione narrativa italiana contemporanea, bisognerebbe forse partire dal dato biografico dell’autore, dalla sua regione d’origine, quella Valle d’Aosta, che è, appunto, terra di confine, all’incrocio tra culture e lingue diverse, spazio geografico come luogo identitario ibrido. Questa dimensione sfuggente, irrequieta, è anche la forza di uno scrittore raffinato e rigoroso, che non smette di rimettersi in gioco e di sperimentare le diverse modalità del narrare.
Non è un caso, allora, che nel suo nuovo romanzo, Neve, cane, piede, dopo il grottesco surreale di A gran giornate (La linea), Morandini cambi decisamente rotta, con una virata che guarda alla letteratura di montagna svizzera, poco conosciuta e frequentata in Italia, prendendo a modello scrittori come il classico Charles-Ferdinand Ramuz, ammirato da Paul Claudel e Céline (fu anche l’autore del libretto Histoire du Soldat per Igor Stravinskij), e soprattutto alcuni contemporanei di lingua romancia che raccontano la solitudine della vita alpestre (tradotti dalla casa editrice Casagrande) come Arno Camenisch, Oscar Peer, Leo Tuor. E proprio come uno dei misantropi pastori di Tuor, isolato sulle montagne dei Grigioni, anche Adelmo Farandola, il protagonista del sesto romanzo di Morandini, vive lontano dal consorzio umano, in un vallone «brutto e pietroso» delle Alpi, che non interessa a nessuno perché inospitale, d’inverno pieno di valanghe e in primavera e autunno «straziato dai torrenti». Adelmo non vuole altro, non chiede altro che vivere la sua vita di montagna, quasi ferina, scandita dal passaggio delle stagioni.
Per tenersi ancora più lontano dagli odiati uomini, d’estate si spinge fino a un antico bivacco abbandonato, in cima a un colle tra le pietraie, poco più di una baracca di lamiera e legno, «traballante sul nulla», da dove caccia via a sassate i rari escursionisti che si avventurano fin lassù, per scoraggiarli a salire. Scende in paese solo guidato dalla necessità di fare rifornimento per l’inverno, quando la neve ricopre ogni cosa e non c’è selvaggina da cacciare, e per il resto ha come unica compagnia un cane, con il quale parla, e che a sua volta gli parla. Sì, perché la forzata solitudine di Adelmo ha di questi effetti collaterali: animali che parlano con lui, ragionano, litigano; voci che risuonano nella sua mente, e la memoria che tira brutti scherzi, con amnesie clamorose.
Quando poi gli capita di dover necessariamente scambiare due parole con degli esseri umani, come la proprietaria del negozio del paese dove va a fare provviste una volta l’anno o il giovane guardiacaccia che si spinge fino alla sua baita, i risultati sono disastrosi, tra l’impaccio totale e la paranoia. Il vecchio eremita si chiude così sempre di più nella sua solitudine, finché un giorno di primavera vede spuntare un piede d’uomo da una valanga, e decide di aspettare il disgelo, per scoprire a chi appartenga, mettendosi a vegliare su quel piede e difendendolo dai corvi. Perché intanto un dubbio atroce lo attanaglia: il dubbio che quel piede appartenga a qualcuno che ha conosciuto, qualcuno che lui stesso abbia potuto uccidere senza ricordarselo.
Attorno a questo enigma che lentamente si scioglie insieme alla neve, Morandini costruisce un romanzo breve impeccabile, capace di forzare schemi e strutture narrative tradizionali, «schivando il galateo del plot», senza però mai cedere di una pagina alla cura del dettaglio, alla precisione lessicale, al ritmo musicale della frase. Morandini sembra qui voler rinunciare a tutto il superfluo, per concentrarsi sull’essenziale, rivelandosi scrittore di cose e non di parole, ma che dalle parole riesce a ricavare risonanze intime, barbagli lirici, visioni. Da questa compiuta sintesi, dunque, Neve, cane, piede riesce un libro di una scabra e intensa poesia, ma anche di una comicità tenerissima (i dialoghi con il cane sono, per chiunque ami gli animali, imperdibili), che ammicca allo Charlot della Febbre dell’oro (si vedano le scene della fame allucinata durante l’inverno).
Memore della lezione di Ramuz, Claudio Morandini raggiunge così l’obiettivo, non facile, non scontato, di cogliere il generale dal massimo del particolare: la vicenda di Adelmo Farandola, infatti, per quanto apparentemente lontanissima da noi, non è solo la testimonianza della fine di un’epoca (e di un paesaggio, e di un modo di rapportarsi con la natura), ma è anche, in filigrana, la metafora della profonda solitudine dell’uomo, del suo freudiano disagio nella civiltà, della sua difficoltà a entrare in contatto con gli altri, della sua forza e della sua fragilità insieme.

(Fabrizio Coscia, su SUCCEDE OGGI del 1 dicembre 2015)

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