Claudio Morandini è nato ad Aosta nel 1960 e ha esordito nel 2006 con il romanzo Nora e le ombre. Questo suo ultimo romanzo, Neve, cane, piede è il sesto titolo di una produzione che si è contraddistinta per la raffinatezza e l’assoluta padronanza della lingua: l’ecletticità è un’altra dote fondamentale di uno scrittore capace di cambiare tematiche e situazioni riuscendo ad adattare in maniera straordinaria il suo stile.
Sarcastico, grottesco e visionario, sorprende per la capacità di rendere l’irreale possibile agli occhi del lettore, preparandolo gradualmente a episodi che mai ci sogneremmo, in altri casi, di accettare: Beckett occhieggia in diversi suoi testi, ma Morandini lo rielabora con tinte personalizzate, con un tono canzonatorio che sfiora il caustico, con fendenti che portano alla luce vite dissipate e disperate.
Ogni parola è al proprio posto, le assonanze rendono il testo scarno molto musicale, avvicinandolo a una sinfonia a più strumenti. L’orizzonte della sua narrativa è molto ampio, abbraccia diverse epoche in un’universalità che non relega mai le sue storie al provincialismo asfittico che molti autori italiani contemporanei sembrano non riuscire a scrollarsi di dosso.
L’allegoria è un altro tratto distintivo della prosa dello scrittore aostano, un’allegoria che travalica uno sterile e semplice simbolismo e ci porta in parodie di vite che spesso aprono scenari impensabili. Claudio Morandini è uno scrittore moderno che si muove su stilemi classici con efficacia, con una consapevolezza dei propri mezzi che non deborda mai in sterili esercizi di stile, con la capacità di avere sempre la situazione sotto controllo: tutto è studiato e progettato con una cura che rende la lettura un vero e proprio piacere.

Adelmo Farandola è un vecchio smemorato che vive in una valle isolata di montagna e che gli anni solitari hanno reso anche più burbero, tanto che nella bella stagione si sposta più in alto per evitare di incontrare persone che lo infastidirebbero. Quei pochi intrepidi che si spingono alle sue altezze, e che magari gli chiedono se ha del formaggio da vendere, sono trattati con estrema indifferenza o presi a sassate. Ogni tanto fa una capatina in paese, dove c’è un negozio di alimentari: i rifornimenti per la brutta stagione sono inevitabili e Adelmo Farandola si arrangia cacciando anche animali deboli e feriti, che non avrebbero comunque vita lunga.
Non sente il peso della solitudine e non c’è un motivo apparentemente valido per cui non scaccia un cane che un giorno comincia a inseguirlo su un sentiero. Dopo un inizio di convivenza problematico, i due sembrano trovare una quadra e a un certo punto il cane comincia a parlare. Arriva anche un guardiacaccia che sembra voler tenere sotto controllo Adelmo, o almeno lui così pensa. Dopo un inverno rigido e lungo, all’inizio del disgelo, dalla neve spunta un piede, un evento creerà forti stress al vecchio.
La vicenda si snoda semplice ed essenziale, l’umorismo sempre affiorante rende meno pesante la situazione drammatica e le trovate dell’autore ci portano in un teatro del grottesco che rende il romanzo una vera e propria sorpresa.

Giunto l’inverno, Adelmo Farandola si accorge di avere concesso al cane di rimanere dentro la baita anche la notte. Lo vede accoccolarsi ai piedi del letto, con un sospirone. È diventato un compagni, pensa, un compagno di vita, pensa. Da quando precisamente non lo sa. Non sa da quando ha smesso di allungargli una pedata per il gusto di vederlo sobbalzare, o per il piacere di farsi obbedire senza ragione. Puniscilo, anche se non sai perché, lo saprà lui, si è detto per un po’ di tempo. Ma ora che l’inverno è arrivato e le nevicate hanno cominciato a elevare attorno alla casa un muro bianco, non ci prova più gusto a castigare un cane, e preferisce tenerselo accanto. A volte addirittura se lo prende in braccio, grosso e scapigliato com’è, e siede con il cane sulla pancia, usandolo a mo’ di vecchia coperta“.

(Roberto Sturm, Una casa sull’albero)

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