Col breve romanzo Neve, cane, piede Claudio Morandini ancora una volta sorprende con felice esito gli affezionati estimatori che sin qui lo hanno via via seguito attraverso stazioni narrative immancabilmente e talora radicalmente rinnovate per soggetto, strumenti espressivi e intenti: dal trattenuto registro goticheggiante di Nora e le ombre, a quello ormai apertamente provocatorio e grottesco di Le larve, dalla meditata e colta partitura fanta-storico-musicologica di Rapsodia su un solo tema al bruciante apologo sociopolitico di Il sangue del tiranno, fino alla “zingarata” spassosa del più recente A gran giornate.
Già infatti a partire dall’azzeccato titolo asindetico il lettore è avvertito che verrà condotto in un nuovo clima espressivo, improntato a essenzialità e preventiva messa al bando di bollori: tanto più che la vicenda raccontata e i suoi personaggi (un montanaro scorbutico in odore di demenza senile, un cane parlante, o immaginato tale, con un po’ – ma solo un po’ – dell’entrante saccenteria ideologica del corvo di Uccellacci e uccellini; e altri corvi veri e propri, e un morto stecchito, tutti parimenti inclini a dire la propria) esigono l’intera sorvegliata alchimia di colori e proporzioni che si addice a una fiaba morale senza esplicita morale, per giunta da assoggettare ai vincoli di un aspro scenario alpino. Un delicato cimento, che avrebbe potuto indurre l’Autore a due passi falsi di segno opposto: ornare lo svolgimento di ammicchi di facile effetto e sortilegi immaginativi, tipici semmai di una narrazione fantasy per la gioventù; oppure al contrario, secondando senza misura le caratteristiche della location, prosciugarlo fino al dolente algore, metaforico e letterale, di un paradigma della desolazione distopica quale il lungometraggio Quintet di Robert Altman.
Morandini invece indovina un ideale equilibrio fra tali poli, non senza ricorrere all’abituale understatement, costantemente innervato di precisione costruttiva e freschezza di ritmi, nel quale da tempo egli è provetto, col risultato di offrire un testo che già alla prima lettura ci presenta le credenziali di un attendibile candidato alla dignità di nuovo classico, e sicuramente i lucori di un piccolo gioiello che farà strada. E di certo molto lo aiuta l’istintiva capacità di calibrare dialoghi mai banali né ridondanti, sempre a loro volta equidistanti sia da insistenze umoristiche da sit-com, che condurrebbero fuori dal mood nobilmente sobrio che il progetto narrativo pretende, sia da spigoli concettosi e mutismi, cui indulgerebbe un’imitazione sommaria di effetti bergmaniani.
Il risultato è una lettura scorrevole come quella di Pinocchio (cui il romanzo, fra mille scontate differenze, rimanda in virtù di quella fortunata economia compositiva, propria appunto di certi stati di grazia, che è difficile da definire se non con una locuzione latina: multum in parvo) ma gravata intrigantemente di tutte le risonanze e coinvolgenti sottotesti di un prodotto letterario a noi contemporaneo.
Conclude il libro un’apparente postfazione, intitolata “Storia di questa storia”, che deve essere intesa quale capitolo della narrazione a pieno titolo, coerente col tracciato pregresso e necessario, nonché denso di suggestioni anche toccanti, che ci conducono ben al di là di un mero ambito di ragguagli consuntivi.

(Guido Conterio, su Diacritica n. 6)

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