Un piccolo romanzo, un omaggio alla narrativa di montagna, un amore per qualcosa di sconosciuto capace di lanciarti pigne e sassi senza l’intenzione di ferirti, ma di allontanarti da quello che è riconosciuto come un suo territorio. L’altro, l’estraneo, viene da te per caso, inciampa in te come un fardello non voluto del quale si ridacchia e si racconta come di un mostro, un eremita, un vecchio che di te non sanno che farsene perché sei un ingombro, puzzi, e non sei pazzo abbastanza per dimenticare la strada che dalla baita ti può riportare al paese, giù a valle per fare rifornimento di viveri.

Tu che, se fossi cresciuto in una grande città, saresti un barbone ammassato al ridosso della entrata di una metro, ti ritroviamo qui ad alta quota a sopravvivere al lungo inverno. Tu, Adelmo Farandola, sei il monito che Morandini ci lancia come una fune sgradevole da afferrare, ma indispensabile per sopravvivere. Questo piccolo romanzo e il suo personaggio disegnano una allegoria della condizione umana, ma una condizione umana particolare di coloro che non sopravvivendo a se stessi si ritirano dalla vita, dalla comunità per assistere all’inesorabile. “Spara. La bestia prescelta stramazza, mentre attorno è un fuggi fuggi scomposto, un inciamparsi tra le rocce, un franare a valle nel tentativo di risalire. Adelmo Farandola torna a parlare alla bestia agonizzante. Le dice di non tremare. Le dice di abbandonarsi. Di assaporare gli ultimi momenti prima della morte. La bestia morente lo ascolta, gli occhi strabuzzati nello sforzo, la lingua tesa fuori da un lato del muso, le froge spalancate, e sembra dargli ragione”.

Tutto scompare, la memoria, la verità, chi ha ucciso chi, rimangono solo folate di vento gelido, la neve, un cane, un piede. Ma anche questa realtà Adelmo può decidere di cancellarla a suo piacimento, può lavorare per giorni a scavare e tirare fuori terra da una miniera dismessa affinché il suo corpo e la sua mente possano rilassarsi nel sonno e ritrovare la calma, la forma giusta e assennata affinché la vita prosegua. Una allegoria, Adelmo Farandola e il suo cane parlante, e il guardacaccia, e gli uomini dai pesanti cappotti grigi, altro non sono. L’allegoria, a sua volta, altro non è che una “figura retorica per mezzo della quale l’autore esprime e il lettore ravvisa un significato riposto, diverso da quello letterale”. Ebbene a noi individuare questo significato riposto, questa domanda che tace una risposta. I cavi dell’elettrodotto. “Siamo diventati tutti matti, in paese. Uomini e bestie … quando i cavi ronzavano più forte eravamo capaci di scagliarci gli uni contro gli altri, figli contro le madri, i padri contro i figli, gli uomini contro le cose, le bestie contro gli uomini. Qualcuno ci ha lasciato le penne, in quegli anni, e non per sete di vendetta o altri scopi, ma per effetto di quel ronzio, che ha distillato i pensieri più neri e li ha fatti venire in superficie, li ha resi forti, definitivi.”

Adelmo Farandola a volte si ricorda di quei cavi che gli hanno ronzato sulla testa durante l’infanzia. “Le case del paese in cui ero nato si stringevano proprio sotto il passaggio dell’elettrodotto, tra un pilone e l’altro, e quei cavi altissimi ronzavano giorno e notte…”

I cavi dell’alta tensione, una allegoria finale oppure le azioni di un passato che torna, molto prima, molto tempo prima che arrivassero gli operai a costruire i piloni e stendere i cavi…

(Maria Caterina Prezioso, su Satisfiction)

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