Zaino in spalla, Adelmo Farandola scende dall’alpe a passo deciso, prima che la neve cominci a cadere e renda difficile il cammino già tormentato dal forte vento. L’inverno è alle porte e occorre fare provviste: patate e mele ingrugnite ce ne sono in abbondanza stipate nella stalla, ma c’è da comprare vino, salsicce, sale, burro. Farandola non scende spesso in paese, almeno non come una volta; il fatto è che la gente non gli piace, soprattutto quando vuole stringergli la mano o vuole chiedergli delle cose alle quali lui non vuole o non sa rispondere. O magari, cose di cui non si ricorda nemmeno. Una volta all’anno per approvvigionarsi è più che sufficiente come comparsa per Adelmo, solo che quel giorno, a quanto pare, è già la seconda volta nel giro di una settimana che l’uomo varca la porta del piccolo negozio davanti alla piazza del paese: la loquace commessa è pronta a giurare di avergli già venduto una valanga di roba il martedì o il mercoledì precedente. Com’è possibile che Adelmo se lo sia dimenticato? La donna – e quell’altro signore arrivato dopo di lui, Benito – lo stanno forse prendendo per i fondelli? Farandola compra comunque vino e calze e paga con banconote bisunte; medita vendetta, per quella gentaglia di paese che ride di lui senza motivo. Non è mica pazzo! O forse si? Per sicurezza, guarderà nella stalla appena tornato all’alpe. Un cane lo segue fino a lassù. Adelmo non vuole compagnia, ma forse è bene tenerla con sé quella bestia: se non gli salta il ticchio di mangiarla prima, può sempre tornargli utile l’estate, per mordere gli scocciatori che salgono fino alla sua malga con la pretesa di entrare e scattare fotografie, e poi ridere di lui una volta tornati a valle…

Ogni vallata ha il suo eremita, quella sorta di personaggio mitologico attorno al quale si scatena, fervida, l’immaginazione e la curiosità di chi sta in pianura. Chissà cosa spinge un uomo lassù, nel silenzio, lontano dalla dimensione reale. Claudio Morandini ci regala un ritratto singolare, ispirato da quella letteratura di montagna – soprattutto svizzera – della quale l’autore sembra essere ghiotto, e incentivato da un episodio di cui è stato protagonista, definito dal lui stesso come trascurabile ma evidentemente abbastanza intrigante da riuscire a solleticare la sua fantasia di scrittore. Nella postfazione al libro racconta infatti di come durante una passeggiata lungo un sentiero di montagna si sia davvero imbattuto in uno di questi scorbutici abitanti solitari: si è visto piovere addosso pigne e sassi, lanciati dalle mani di un vecchio con ai piedi un cane sporco e peloso; e quando al bar del paese ha provato a chiedere notizie dell’uomo, ha ricevuto in risposta solo sghignazzi e frasi sibilline. Mistero. Chissà come vive quell’uomo, con chi parla, cosa sogna. Adelmo Farandola è un bel tipetto, non c’è che dire, e le sue tragicomiche fattezze sfociano nel grottesco suscitando in chi legge i sentimenti più disparati: il suo cuore è ormai pietrificato e la sua scortesia indispettisce e spaventa; la sua scarsa igiene (scarsa è un eufemismo, per uno che non si lava da anni e coltiva con religiosa dedizione croste e sudore sul corpo!) fa ribrezzo; la sua solitudine e la sua pazzia commuovono, mentre si ha quasi un senso di straniamento e di compassione davanti alla sua incapacità nell’usare le parole quelle pochissime volte che gli è necessario: “A non parlare per tanto tempo fatica a far uscire le frasi, e ogni parola gli sembra difficile come uno scioglilingua”.

(Stefania Medda, Mangialibri)

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