Appunti attribuiti a Ethan Prescott (cfr “Rapsodia su un solo tema – Colloqui con Rafail Dvoinikov”, Manni, 2010) sulla musica ungherese del Novecento hanno corredato i programmi di sala del ciclo di concerti “SHE LIVES incontra l’Ungheria” dell’8 e 15 giugno e del 2 luglio, dedicati rispettivamente a musiche di Péter Eötvös, Zoltán Jeney e Alessio Elia, e, nella versione originale più estesa, sono pubblicati nelle “Note critiche” sul sito dell’associazione (http://www.shelivesmusic.it). Sono rintracciabili anche sul blog “Iperboli, ellissi“.

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Sul numero 7 di “Night Italia”, la rivista curata da Marco Fioramanti e pubblicata da Psychodream, accanto all’incipit di A gran giornate compare la seguente pagina inedita di Ethan Prescott.

Seguiranno altri inediti attribuiti al compositore statunitense protagonista di Rapsodia su un solo tema – Colloqui con Rafail Dvoinikov, apparsi sul blog “Iperboli, ellissi” (http://ombrelarve.blogspot.it) o altrove.

 

UN INEDITO DI ETHAN PRESCOTT

Nota introduttiva

Dopo la pubblicazione di “Rapsodia su un solo tema – Colloqui con Rafail Dvoinikov” (Manni, 2010), in cui Carl Thalberg ha raccolto molte delle pagine del giovane musicista di Philadelphia Ethan Prescott dedicate agli incontri con Rafail Dvoinikov, si sono scoperti altri appunti e minute di Prescott sul vecchio compositore russo. Prescott era fatto così: scriveva ovunque, caparbiamente, con la vena di un poligrafo di altri tempi (o di un grafomane, dipende dai punti di vista), in attesa di riordinare il materiale magmatico che andava accumulando. La morte improvvisa non gli ha concesso il tempo di dare una stesura definitiva alle sue carte, rimaste in più mani e solo parzialmente edite grazie alla cura del suo compagno Carl Thalberg.
Presento agli amici di “Night Italia” un altro frammento inedito del diario di Prescott, uno dei tanti apparsi dopo la pubblicazione di “Rapsodia su un solo tema”. In esso compare anche la giovane assistente di Dvoinikov, Polina, che tanta parte ha in “Rapsodia”, come interprete tra i due compositori ma anche, verrebbe da dire, come deus ex machina.
Claudio Morandini

 

Mi commuove l’Elegia funebre per quartetto d’archi che Dvoinikov ha scritto nel 1932 per la moglie Katerina. La dedica allude a un lutto che rimane misterioso – forse un animale domestico, o, più scherzosamente, un caro oggetto andato perso o caduto, o rubato. “Per consolarla di una perdita tanto grave, per asciugarle le lacrime dal bel volto” dice il frontespizio (Polina, che mi ha appena mostrato delle fotocopie del manoscritto, traduce impassibile, e sul momento questa impassibilità mi lascia interdetto).
Scorro l’Elegia, due pagine di malinconico rimuginare attorno a un tema discendente di cinque note, la, la bemolle, fa, mi, re bemolle. Armonicamente scabro, oscilla tra re minore (un si bemolle in chiave) e la minore, ma sostanzialmente resta immobile, «come acqua di lago di notte» (questa è di Polina). Un epicedio di scherzosa mestizia, scritto forse con ironia affettuosa. Lo chiedo a lei.
«Che cosa te lo fa pensare?» mi chiede a sua volta.
«È tutto così… Insomma, è uno scherzo o no? E a quale perdita si riferisce la dedica?»
«Ma no, Rafail Nikolaevich è sempre serio, sempre. Anche quando gioca. Dovresti averlo capito, ormai.»
«Io veramente credo che…»
«Ora però guarda questo.»
Prende altre due fotocopie di un manoscritto. Un’altra Elegia, non più funebre. Anche questa per quartetto d’archi.
«Ma è la stessa musica!» dico, dopo aver dato una scorsa. «Con qualche differenza, d’accordo, le indicazioni agogiche sono diverse, ma… Che dice la dedica?»
«Dice: “A Irene, per sopportare la lontananza”.»
Chiedo chi sia Irene. Oh, un’amica, o meglio un’amante, suggerisce Polina, che ora si lascia scappare un mezzo sorriso. Un’amante che non è stato possibile individuare – una delle tante, in quegli anni cupi, la cui oppressione poteva essere attenuata solo da amori frequenti e furtivi.
Torno sul brano. Attraverso minime varianti, ora il pezzo suona non più come un lamento funebre, sia pure scherzoso, ma come l’allusione a uno strusciare di mani su vestiti – o come l’ansimare di due corpi che si desiderano, fate voi. Mi piacerebbe condividere questa suggestione con Polina, ma non vorrei metterle in testa chissà che, e taccio.
Lei approfitta del mio silenzio per allungarmi un altro paio di fotocopie.
«Ma è sempre la stessa Elegia» mormoro. I due o tre ritocchi che noto a un primo sguardo non nascondono che la materia di cui sono fatte queste pagine è quella che ho già vista due volte. Ora un’indicazione chiede un “Tempo di Marcia”, e diversi puntini posti sulle note richiedono staccato – ma la sostanza non cambia, l’identico tema discendente, la medesima oscillazione armonica.
«Questa volta» sorride Polina «il pezzo era dedicato a un tizio del Partito che aveva messo su un quartetto d’archi con tre amici.»
«Il titolo è diverso» noto, e provo a cincischiare quel cirillico, facendola ridere.
«Inno alla Vittoria» conferma Polina.
«Quale vittoria?»
«E chi lo sa?»
Non nascondo a Polina il mio imbarazzo. Dvoinikov ha ripreso quella pagina, che all’inizio mi era parsa ispirata a una fresca malinconia, e l’ha riciclata senza sforzi, dalla moglie all’amante, all’amico funzionario. «A chi altri?» chiedo.
Polina sospira, sorride, esita. «Ad altri quattro» dice, la mano davanti alla bocca, in un gesto infantile di ritrosia. «Ma è normale, lo facevano in tanti, i pezzi rimanevano privati, come vedi non hanno numero d’opera né data e non sono mai stati stampati, la possibilità che si scoprissero le somiglianze era davvero remota. I dedicatari erano tutte persone che non avevano alcuna relazione tra loro.»
Le domando chi fossero questi quattro.
«Vediamo. Un’altra amante. Un amico di gioventù diventato direttore d’orchestra al Kirov. Un tirapiedi di Galavamov da compiacere per approfittarne nei momenti più difficili. E poi di nuovo sua moglie Katerina Dvoinikova, che a detta di Rafail Nikolaevich ha sempre avuto una cattiva memoria, anche prima della malattia.»
«Ma è tutto così cinico
«Non lo facciamo tutti, con i regali di Natale? O in molte altre circostanze?»
«Be’, che c’entra, è diverso… Potrei studiare meglio le partiture?»
«No.»
«Posso almeno citarle in una nota?»
«No, caro Ethan. Rafail Nikolaevich non vuole che circolino. E non vuole nemmeno che se ne sappia qualcosa. Erano piccoli regali privati, capisci.»
«Perché ne parli al plurale? Era un regalo solo!»
La mia reazione – un’indignazione poco convinta, in un tono quasi in falsetto che detesto e che mi viene quando mi innervosisco – la fa ridere di cuore. Va bene, ammetto, l’uomo è capace di ben peggiori cinismi, di simulazioni ben più gravi. Quante menzogne, ben peggiori di questa Elegia, che oltretutto ha un suo garbo, una sua bellezza un po’ grigia – quante menzogne abbiamo pronunciato nel corso della nostra vita, con lo sguardo fisso a nascondere l’imbarazzo e a depistare gli sguardi altrui? In fondo, ragiono a mezza voce, c’è di peggio che riciclare lo stesso pezzo cambiando appena titolo, e nemmeno sempre. E la particolare situazione storica (e politica, e umana) in cui Dvoinikov viveva può discolparlo.
«Ma se non posso occuparmene» insisto «perché mi hai fatto vedere queste pagine? È irritante doverle ignorare come se non fossero mai state scritte… Sei crudele, Polina.»
«Veramente» dice lei, con uno dei suoi sorrisi, «è stato Rafail Nikolaevich a volere che tu scoprissi questi pezzi. E ha insistito perché io gli raccontassi le tue reazioni.»

E. P., 1996

 

Giunti a questo punto, siamo colti però da una perplessità. Ethan Prescott sapeva bene che la musica, l’arte anzi, è fatta per lo più di rimandi, prestiti, parodie, furti, contraffazioni, estorsioni, e che la storia dell’arte è la storia di materiali tematici che passano dall’uno all’altro, che pomposamente attraversano i secoli o più modestamente vengono rigirati come calzini, a seconda dell’occasione, dell’intenzione, della faccia tosta. Egli stesso saprebbe snocciolare i nomi, a lui cari, e i titoli al centro di questa plurisecolare girandola di travasi. Anche la sua musica – sua di Prescott – è frutto di contaminazioni, cercate o trovate, di rimandi ad altro, a un altro lui stesso, è figlia insomma di un atteggiamento istintivamente post-moderno (un termine che, va dato atto a Prescott, in “Rapsodia su un solo tema” non è mai citato). Per questo ci stupisce lo stupore di Prescott dinanzi al riciclaggio operato da Dvoinikov. Il giovane compositore di Philadelphia non era così ingenuo, e soprattutto non avrebbe reagito con il candore che traspare da queste pagine al “cinismo” con cui Dvoinikov trova più destinazioni per un semplice materiale motivico: in fondo sa bene che sono “note, solo note”, secondo la formula con cui Dvoinikov lo ha riportato più volte al livello della pura artigianalità, che è fatta anche di questo, di parsimonia, di etica del riciclaggio.
Insomma, e per concludere: ci sorge il sospetto, tutt’altro che peregrino, che queste pagine in impeccabile angloamericano siano in realtà apocrife, come forse altro materiale diaristico e critico attribuito a Prescott e pubblicato successivamente alla sua morte. Chi ne sia il vero autore – o la vera autrice – potrebbe essere al centro di una futura indagine filologica. 

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Da “Attraverso Passaggi – Annuario 2010” di Malicuvata Casa Lettrice 

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Carl Thalberg, che in “Rapsodia su un solo tema” (Manni, 2010) ha raccolto e pubblicato le numerose pagine di Ethan Prescott dedicate agli incontri con Rafail Dvoinikov, ha continuato a scoprire, tra le carte del suo compagno, appunti e minute sul compositore russo. Prescott era fatto così: scriveva ovunque, caparbiamente, con la vena di un poligrafo di altri tempi (o di un grafomane, dipende dai punti di vista), in attesa di riordinare il materiale magmatico che andava accumulando. Traduco per gli amici di Malicuvata un frammento inedito, uno dei tanti, incentrato su una Sonata di Dvoinikov creduta dispersa, mai incisa su disco e, per quel che ne so, mai eseguita in concerto. In questa pagina un tantino iperbolica Prescott torna su certi temi che gli sono cari, e sembra raccontare la musica come sede di profondi e misteriosi conflitti.

 

Ethan Prescott – La Sonata per viola sola di Rafail Dvoinikov, 1951

La Sonata per viola sola è senz’altro una delle opere più stravaganti di Dvoinikov. Scritta di getto per un violista che non l’avrebbe mai eseguita in pubblico, sembra perseguire un’idea di sgradevolezza: nudità della melodia, idee tematiche di corto respiro strapazzate con ferocia, interruzioni e silenzi più lunghi e frequenti del sopportabile. Chi applaudirebbe con convinzione alla fine di una esecuzione di queste pagine scostanti? Il virtuosismo, che pure è richiesto, sembra occultarsi, negarsi, e non cerca l’ammirazione, ma piuttosto lo sconcerto, o, se appena si è un po’ sensibili, il raccapriccio.
Il primo tempo, un Allegretto il cui unico tema è giocato sulla cocciuta alternanza di un intervallo di quarta eccedente e uno di seconda maggiore, suona come un abbozzo, buttato lì con insofferenza. Ci viene da pensare che non lo vorremmo riascoltare mai più – come ci capita spesso, pensiamo che sarà più piacevole parlarne, piuttosto che ascoltarlo di nuovo. Eppure tra quei ghirigori impacciati sentiamo nascondersi un nucleo fascinoso di dolore, un grumo di spaventata bellezza – lo percepiamo risuonare leggerissimo nei silenzi, nel gioco traslucido degli armonici. È quella, la musica sottintesa delle vibrazioni e degli ipertoni, che vorremmo sentire, perché la intuiamo assai più bella e dolce di questa, reale, che ci strazia le orecchie e ci fa sbuffare. Il professionista riesce a distinguere con una certa consapevolezza la musica nascosta nelle altezze degli armonici, e ne resta turbato; agli altri, giunge comunque una qualche oscura impressione di un mondo negato, e la sensazione bruciante di non poter accedere a quel mondo.
Dopo un Adagio che esplora le zone paludose del registro basso senza mai sollevarsi, il Presto finale è poco più di un raptus disperato, interrotto dalla fretta o dal disamore a metà di una frase: una trentina di secondi in tutto, in cui la melodia si contorce in spirali ascendenti di velocità spaventosa, che rendono impossibile a chiunque il mantenimento dell’intonazione.
Questa Sonata sta ben lontana dagli intendimenti della letteratura per viola sola, di solito concentrata su temi pensosi, malinconicamente severi, aristocraticamente sonnacchiosi – si pensi a Hindemith, a Vieuxtemps, a Reger, a Stravinsky, o a tutti quei minori sovietici che hanno fatto della viola la loro voce preferita. Quella di Dvoinikov non è una viola, ma un violino sgraziato o un violoncello scordato, che dal suo esilio urla e mugugna e protesta e di certo non si metterà mai a cantare.
(Anche in http://www.malicuvata.it/-modi-verbosi)

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Soulima Stravinsky, Quartetti per archi 1-3, 1982-1987

Ethan Prescott non si è solo dedicato all’esegesi delle opere di Dvoinikov (si veda per questo “Rapsodia su un solo tema”, Manni, 2010). Tra le sue carte ancora in via di catalogazione Carl Thalberg ha trovato abbozzi di articoli e saggi su musiche di molti altri compositori del Novecento. Prescott sembra attratto dalle composizioni meno note, dagli autori più trascurati, dalle figure che le circostanze, o una limitata ispirazione, hanno relegato nell’ombra. Così, invece di scrivere su Igor Stravinsky, il compianto musicologo di Philadelphia ha preferito soffermarsi sul figlio di questi, Soulima, pianista e compositore a sua volta: e per giunta non sui brani pianistici, che qualche volta capita di ascoltare,o sulla produzione didattica, ma proprio sui tardi e negletti quartetti per archi. In questa pagina capricciosa, che traduco alla bell’e meglio, Prescott contamina più del solito il linguaggio della musicologia con reminiscenze, impressioni, umori, perfidie: e ci lascia un doppio ritratto, di Stravinsky padre e Stravinsky figlio, amaro e sofferto.
C. M.

Nel suo primo quartetto, del 1982, Soulima sembra voler evitare tutto ciò che ha fatto il padre. Già la scelta dell’organico è significativa: Igor ha praticato poco e quasi di malavoglia il quartetto d’archi, e solo in pezzi d’occasione che preferirà ben presto orchestrare, e ha maltrattato gli strumenti ad arco con violenza, pretendendo da essi stridori, cigolii, colpi di tosse, ragli – in ogni caso mai lo sviluppo di un’idea. Soulima torna al quartetto tradizionale, ai tre tempi, a un’idea preromantica, cristallina e quasi ossequiosa di sviluppo tematico. Ogni strumento resta al suo posto, rispetta il proprio ruolo, sulla base di un accademismo così rigoroso che non può non significare altro. È un rimettere ordine negli scaffali della tradizione che il padre ha buttato all’aria. Vi sembrerà di sentirlo sbuffare, Soulima, il figlio, dinanzi al disordine lasciato da papà, di vederlo scuotere la testa.
Gli altri due quartetti (del 1983! del 1987!) non sono da meno, anche se si aprono a qualche imbronciata modernità ormai fuori tempo da un pezzo: soprattutto si negano a quello che il padre (le père Igor, alla lettera) ha sperimentato con maggiore ostinazione, l’irregolarità ritmica. Se è un 4/4, lo sia fino all’ultima battuta. E i temi siano squadrati, di 4, 8 battute. Soulima trattiene il fiato, si immerge in apnea, in un mondo musicale precedente a Stravinsky padre, precedente anche a Debussy, e scivola in un neo-neoclassicismo, privo di strizzatine d’occhio, di distacco ironico. È lì, trattiene il respiro, e intanto finge di essere orfano.
Ricordo di averli sentiti in antiche registrazioni, Igor e Soulima. Suonavano spesso a quattro mani – Igor aveva composto vari pezzi da concerto per loro due, su insistenza dello stesso Soulima. Più impacciato tecnicamente, il padre aveva riservato a se stesso la parte più facile, ma anche più accattivante e cantabile, e lasciato al figlio le tessiture più complesse, le rifiniture più ingrate. Ecco il più giovane sudare dietro agli intrichi irregolari in cui il più vecchio lo aveva infilato – sudare e imprecare sottovoce, curvo sulla tastiera, la lingua stretta tra i denti per la concentrazione, mai una battuta uguale all’altra, mai la rassicurante prevedibilità di uno sviluppo coerente, solo rotture, crasi, sincopi, fratture. E Igor, all’altro lato della tastiera, o all’altro pianoforte, a cincischiare le melodie, fintamente concentrato, in realtà soprappensiero, forse pure un po’ brillo.
Eccoli prendere gli applausi, in alcune foto. Soulima è bello, slanciato, elegante, e risalterebbe ben più del padre, se non fosse così compresso, e il suo sguardo non si fosse incupito. Per più di un’ora ha suonato musica che non ama, di cui certo non condivide nulla e che forse non capisce nemmeno. E ora riceve solo qualche applauso riflesso – il genio, in famiglia, è un altro.
Non stupiamoci se i suoi quartetti suonano così reazionari. Dal punto di vista di Soulima, l’unico modo per fare un passo avanti era farne due o tre indietro, prima di Debussy, Fauré, Borodin – sì, dalle parti di Borodin, perfetto, ci siamo, ma senza tutta quella gradevolezza, mi raccomando! Un Borodin riscritto da un Britten alzatosi di cattivo umore, immalinconito per una commissione accettata di malavoglia, o per un mezzo screzio con Peter Pears.
(http://www.malicuvata.it/-modi-verbosi-/-del-2010-/276-soulima-stravinsky-quartetti-per-archi-1-3-1982-1987.html)

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UNA PAGINA DAL DIARIO DI E. P.

Traduco un appunto di Ethan Prescott, che Carl Thalberg ha omesso da “Rapsodia su un solo tema” forse perché non era pertinente con l’argomento generale dell’opera, o perché vi sono contenute alcune perfidie nei confronti di Edna Coates, l’editrice di Prescott (la quale, per la verità, appare già in una luce piuttosto ambigua). Si faccia riferimento sempre a “Rapsodia su un solo tema – Colloqui con Rafail Dvoinikov”, di imminentissima pubblicazione in Italia per i tipi della Manni.

Fino a pochi mesi fa, Edna teneva appesa in ufficio una polaroid risalente a qualche anno prima che la ritraeva in compagnia di Prince. Quella foto mi aveva sempre impressionato: era un’immagine quasi casuale, anche un tantino sfocata, con troppo contrasto, troppa luce. Lui, il cantante di Minneapolis, minuto, grigio di pelle, tutt’occhi e labbra, i riccioli scomposti dopo un aftershow di tre ore in un club di Philadelphia: lei già sovrappeso, lustra di sudore, un sorriso rapace e stolido, una mammella quasi fuori dall’abitino, e qualcosa di opaco tra i denti, forse un residuo di spinacio.
«Prince» diceva Edna a chi entrava e si guardava attorno.
«Già» diceva l’ospite, concentrandosi su quella foto. «Bassino, eh?»
«Un genio» diceva lei. E poi, come per scusarsi: «Ma guarda com’ero conciata! Non riuscivo a smettere di ballare! Prima al concerto, poi in questo show fuori programma… Un’energia, ti dico, quell’uomo… E non lo diresti proprio, a vederlo.»
Non lo avresti detto, no. Quel nanetto indeciso tra il broncio e una gaiezza sexy sembrava solo infinitamente stanco. E il vestito da Lord Brummel gli cascava dalle spalle come se fosse di tre taglie troppo grande.
Edna ama quel genere di contrasti – a destra di quella foto, sulla stessa parete, un autografo di John Corigliano, su un programma di sala; una caricatura originale firmata da David Levine di un Beethoven che faceva a pezzi un pianoforte; un 78 giri di Florence Foster Jenkins (sempre lei!).
«E non mangia mai! Sai che non mangia mai?» insisteva.
«Chi?»
«Prince! Non l’ho visto mai mangiare, giuro!» si sbracciava Edna. Sapevo che i due si erano limitati a scambiare qualche parola, sulla bellezza universale della musica e su altri luoghi comuni, e che lui, prima di andarsene, s’era fatto portare un tè senza zucchero, mentre lei addentava il secondo sandwich. L’aveva salutata appena, con un mugugno in falsetto, poi era scomparso tra i corpi giganteschi delle guardie del corpo. Ma Edna su quell’incontro aveva molto lavorato di immaginazione, e la sua ricostruzione continuava ogni volta ad arricchirsi di nuovi dettagli.
«Non mangia! Eppure…»
Quelle frasi sospese volevano suggerire chissà che. Con me non attaccava, certo, ma suppongo che un musicista diplomato non ignaro di funk potesse rimanere impressionato.
(ombrelarve.blogspot.it)

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PASTICHE ALLA RUSSA (prima e seconda parte)

s. d. – Sembra che il compositore dell’ex Unione Sovietica (e degli stati satelliti) conosca soprattutto due modi per affrancarsi dai dettami del realismo socialista (curiosamente, o forse no, non è contemplato lo sperimentalismo postdarmstadtiano). Il primo modo è quello della regressione a una musica genericamente situabile tra medioevo e romanticismo, tutta echi di chiesa e sospensioni tonali: è musica di misticismo burbero, che si cinge di cilici armonici e stringe, stringe fino al sangue; ama i digiuni, e ama tenere a digiuno anche chi ascolta. Ieratico, mistico, per evitare la magniloquenza rapsodica del realismo socialista il compositore nostalgico di vecchia Russia si impantana in una magniloquenza di segno opposto, pericolosamente retriva, di fronte alla quale anche i Vespri di Rachmaninov suonano così audaci. Ascoltare questa roba è come andare in visita da quei vecchi parenti bigotti che ti guardano subito storto perché ti giudicano un peccatore irredimibile, non sanno parlare d’altro che di morti e agonie e si recano a tutti i funerali. Pare che questa tendenza non sia tipica solo dei compositori sopravvissuti, ormai vecchi, ma abbia attecchito anche presso le generazioni più recenti, alimentando schiere di giovani integralisti dalla vena innologica e lo sguardo febbricitante dell’eletto.
L’altra maniera per ribellarsi alla solennità seriosa del sinfonismo zhdanoviano è il ricorso al pastiche. L’anima russa, per quel che ne so, ha sempre avuto questa propensione al pastiche, all’uso ironico dell’eteroclito, all’accostamento spiazzante, alla parodia un po’ grossière, alla satira che non va per il sottile (come noialtri americani, mi sussurra una vocina). Ecco, in tempi di relativa libertà, la musica torna con sollievo a fare le smorfie in ogni direzione, al patchwork dispettoso, allo sberleffo. Accosta alto e basso, o meglio molto-alto e molto-basso. Si scopre eclettica, ma di un eclettismo roboante, non proprio sobrio, anzi decisamente alticcio. Potrei citare molte composizioni come esempio. La prima che mi viene in mente è la Prima Sinfonia di Schnittke, che sembra superare l’eclettismo divenendone una pesante parodia, anche piuttosto cupa. Poi c’è la produzione di un simpaticissimo minore come Sergey Slonimsky (Polina me ne ha parlato sottovoce, un giorno in cui Rafail Nikolaevich era in un’altra stanza. E ha aggiunto subito di non accennare mai a Slonimsky in presenza di Dvoinikov, che detesta francamente tutta quella voglia di ridere e trova patetico quell’impulso a farsi gran risate e a fare “l’americano”).

Slonimsky è un eclettico costantemente bizzarro (e, come dire, prevedibilmente imprevedibile, quando cominci a conoscerlo). Spruzza jazz, pop music e robuste dosi di colonna sonora nelle sue composizioni, che si tratti di sinfonie o concerti. Non rinuncia alla forma illustre (Sinfonia, appunto, Concerto…), ma ne fa un ibrido. Musica da disegno animato, di quelli con Daffy Duck o Tom e Jerry al pianoforte, o da Silly Symphony. La sua composizione più divertente in questo senso è il Concerto per orchestra, tre chitarre elettriche e strumenti solisti, del 1973, una chicca che Polina mi fa avere su musicassetta, registrata da un LP discretamente rovinato – forse per ascolti ossessivi. In tre tempi, il Concerto alterna momenti di allegria epica da film western a sbrodolature che a Broadway farebbero un figurone, musica leggera balneare e fasi di rielaborazione più colta che sembrano condurre dalle parti di Bernstein (talvolta, ed è un sollievo, di Ives). Nel movimento centrale, una tromba solista canta come se a suonarla fosse Chuck Mangione in uno di quei suoi pomposi live con orchestra sinfonica coro e chissà che altro. Quali erano le intenzioni di Slonismky al momento di scrivere questa musica? mi chiedo. Struggente nostalgia per gli Stati Uniti, mai visitati eppure già parte del suo paesaggio mentale, o desiderio di appropriazione? O, che so, volontà dissacratoria? O ricorso a materiale già universale, già “russificato” attraverso le vie della pop music e del cinema? C’entrerà qualcosa Nicolas Slonimsky, l’omonimo musicologo che viveva e operava a Boston dagli anni venti? Devo riparlarne con Polina.

(Comunque, come si fa a rimanere impassibile di fronte a musica così? Io, stasera, ballavo nella mia stanza d’albergo, da solo, e ho messo su quattro volte di seguito questo Concerto, come farebbe un ragazzino degli anni settanta con il disco della sua band del cuore. Negli anni settanta lo avrei detestato – oggi lo adoro. E conosco amici che ucciderebbero per poter godere di musica così.)

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s. d. – Quando le parlo di Sergey Slonismsky e di quanto sia difficile tener ferme le gambe ascoltando le sue musiche, Claire sorride paziente e non dice nulla – temo abbia ascritto automaticamente queste mie parole alle iperboli entusiastiche, e stia solo aspettando che mi passi.
Invece, il giorno dopo, eccola arrivare con una cartellina da cui estrae due fotocopie di fotografie. Me le mostra, fiera. In entrambe due uomini di mezz’età ridono come matti. In una addirittura si avvolgono in una sorta di sciarpona musicale decorata di note. Siedono – ridere così stando in piedi è pericoloso per l’equilibrio. Ridono beati come due bambini – anche voi ridevate di nulla, magari di una parola che per accidente sentivate buffa, o di un’espressione dell’altro, o del nulla? Le nostre risate migliori, che difficilmente potremo goderci ancora, se non, forse, rimbecillendo da vecchi.
Uno dei due è quel cuorcontento di Slonimsky: ha quel sorriso buono di chi non si accorge del male del mondo, e vive in un mondo finalmente sicuro di cose tutte sue, eretto a fatica nel corso di decenni. L’altro è John (père John, John Cage, insomma, o uncle John, fate voi). Ignoravo che si conoscessero. Eppure Claire mi sta mostrando almeno due occasioni in cui i due si sono visti e scambiati non sorrisi di circostanza, ma risate a crepapelle. Chissà di che parlavano. Chissà che cosa hanno strimpellato. Magari parlavano di funghi – John era un esperto raccoglitore, lo sanno tutti. Magari hanno improvvisato al pianoforte. Le loro concezioni musicali erano così distanti, i loro mondi sonori incomunicabili – questo, a volte, permette una comunicazione a distanza, una gentilezza reciproca, certo, ma queste sono risate grasse.
«Chi è questo terzo signore? Mi pare di conoscerlo» chiedo a Claire, perché nella seconda fotografia un vecchio con un bel riporto bianco si unisce agli sghignazzi.
Claire mi guarda come io guardo gli studenti che a un esame non sanno rispondere a una domanda semplice. «Nikolaj Slonimsky, lo zio.»
«Ma certo, è Nicolas Slonismky, il musicologo!» preciso. «Qualche anno fa gli ho anche scritto, a proposito di Dvoinikov, ma non ho mai ricevuto risposta.»
«Forse era già malato, Ethan. È lui, comunque. Nicolas, o Nikolaj. Chiamalo come vuoi.»
«I due sono parenti?»
«Certo che lo sono.» Rieccolo, lo sguardo di disapprovazione. «Mi stai prendendo in giro?»
Per cambiare discorso, Claire tira fuori da una cartellina una terza foto: Slonimsky (Sergey) assieme a un barbuto con gli occhiali (è Penderecki, d’accordo): qui nessuno ride (Penderecki avrà mai riso in vita sua?), e anche Sergey si adatta alle circostanze, sfodera un sorrisetto quasi compunto di circostanza, tenendosi ben dietro al polacco, che di sicuro disapproverebbe anche quella mezza smorfia, e si vede che preferirebbe essere in compagnia di John, che almeno è un tipo ameno, non compone solo funeral music, e sa praticare come pochi l’understatement.
(ombrelarve.blogspot.it)

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