Il Libro del mese
Claudio Morandini
Neve, cane, piede

“In passato Adelmo Farandola si recava al paese più spesso, per ascoltare la banda nei giorni di festa solen­ne. Si nascondeva dietro i muri delle case, e lasciava che il suono della banda gli giungesse confuso. Ma aveva smesso presto di farlo, perché qualcuno lo aveva visto, gli era andato incontro con la mano tesa a strin­gere la sua, aveva cercato di scambiare due chiacchie­re. Ora gli capita di scendere fino a metà della fascia di faggi, e di ascoltare le bande da lassù, ben protetto dalle foglie e dai tronchi. La musica sale indistinta, un pasticcio di colpi di grancassa, tube e stridori di clari­ni, oscillante nel vento, ma a lui basta questo, e a vol­te gli capita anche di riconoscere una melodia o l’al­tra, e gli viene addirittura voglia di canticchiarla, e al­lora lo fa, ma pianissimo, perché non vorrebbe essere scoperto da qualcuno che passa da quelle parti, pronto ad andargli incontro e a stringergli la mano e a non lasciargliela e a chiedergli cose che lui non sa, non si ricorda o non vuole sapere o non vuole dire.”

Stiamo qui a sgolarci, da tempo, sul furto perpetrato dal rac­conto ai danni della prosa (per non dire della vita). La storia, questo tiranno — spesso penosamente illuminato — che pater­nalisticamente tenta di convincerci della sua inevitabilità. Come se dovessimo in qualche modo adeguarci a un desti­no, a uno Zeitgeist, unico modo di esserci-nel-mondo, quello del subappalto alla narrazione. Heidegger ne gioirebbe. Ne consegue un dovuto sospetto nei confronti di tutti i sedicenti portatori di messaggio, peggio mi sento se in forma di ro­manzo, specie in questa nostra lingua che tanti destini po­trebbe avere invece che quello del re-contare, di raccontare il re (e mai di dire la cosa, simpliciter). Ma, capita, che si incocci in una scrittura basilare, nel senso capace di dire le basi, le rocce su cui si abbarbicano le incomprensibili, tragiche e co­miche, vite degli umani. E che scatti una gioia sgomenta, qualcosa che si potrebbe, con qualche forzatura o approssimazione, accostare a una sorta di speranza. È il caso di Morandini, scrittore roccioso, appunto. E non a caso. Appartato geograficamente, in quel microcosmo alpino ignoto ai più che è la Val d’Aosta, quell’Augusta Praetoria incassata tra le vette, sufficientemente lontana dalle piste da sci e avvoltola­ta nel bozzolo, tra il dorato e il sedativo, dello “statuto spe­ciale”. Appartato letterariamente, anche dopo un romanzo, A gran giornate, che pochi hanno letto e che la critica ha trat­tato con rispettoso silenzio, il silenzio di chi teme per la terra sotto i propri piedi. Ed ecco che ci sottopone questo libro smilzo, con stampate in prima tre parole che immediatamen­te ci portano nel sobrio rigore montano: la neve, che copre; il cane, che scava; il piede, che poco può fare se non camminare (…). La “storia” è una storia di nulla. Di un uomo che ha scelto di stare da solo, in un vallo­ne impervio dove nella guerra gli uomini anda­vano a nascondersi e morire, poi provavano a portare le bestie e morire, e poi, nell’era del de­finitivo ripudio della fatica, ci finiscono solo per sbaglio. Adelmo Farandola ha scelto il silenzio, nel senso ha rifiutato la comunicazione che non sia riflessa, la parola a valle dell’apparato fona­torio. È un vecchio, forse. La memoria gli si sta sgretolando, ma in compenso trova un cane, spelacchiato an­che lui, che, invece, parla. Pure troppo. Insieme passano un inverno nel nulla corazzato dalla neve. Un inverno di fame e gelo, dove ogni cosa è assolutamente, drammaticamente, se stessa. La povertà dell’assortimento costringe a una rabbio­sa, e in fine ridicola, lucidità. Il risveglio, il disgelo, porterà alla scoperta di un macabro-comico cadavere, pretesto per un ennesimo, indesiderato tentativo di irruzione del mondo nel silenzio del tempo. Con una prosa piana, estremamente sintetica, che non indulge nel tentativo – fallace, ormai si do­vrebbe saperlo – di derivare il vero tramite l’alfabeto, Morandini traccia le magre vicende del duo (e il confine tra pro­tagonista e spalla è piuttosto sfumato) con un amorevole di­stacco che si direbbe epico, non fosse per l’evidente lonta­nanza dal concetto stesso di eroe. Le pagine scorrono veloci, sgombre come sono da intralci egotici, mentre il tempo del­l’alpe sembra appartenere a una dimensione che di tempo è priva. Certo, l’inverno passa. Come siamo abituati. Ma solo per tornare un’altra volta, unico apparente scopo. L’autore sente il bisogno – sign o’ the times? Gioco ironico? – di aggan­ciare, in una breve postfazione, la storia alla sua propria esperienza. Lo fa con un garbo che non disturba. Ma non ce n’era bisogno. Farandola non ha bisogno di essere dichiarato vero. Perché è vero in tutta evidenza, a maggior ragione se nessuno l’avesse mai visto, lui e il suo cane parlante. E anche su questo, sulla loquacità canina, non abbiamo il minimo dubbio. Lasciamo, a mo’ di epitaffio, un brandello di Manganelli dal Nuovo commento, come pedante monito per uno che il nome di scrittore sta dimostrando di saperlo non tanto me­ritare, ma accettare: e confidiamo che la spiega che qui si è data, quasi lapide che il morto abbia argutamente inciso dal di dentro sul suo proprio sepolcro, sia onorevole menzogna, anziché sprege­vole imitazione del vero.

 (Fabio Donalisio, Blow Up n. 214, marzo 2016)

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