Neve, Cane, Piede, l’ultimo romanzo di Claudio Morandini, si presenterebbe come l’ennesimo romanzo di montagna. Quel testo dal quale aspettarsi un vecchio uomo in cerca di solitudine, una baita circondata dalla neve e un saggio segugio da accudire tra un pezzo di formaggio e un sorso di vino. Nulla di più sbagliato.
Abbiamo davanti un caso anomalo, una prova che nonostante abbia radici nel modello letterario svizzero e si serva di alcuni elementi canonici, riesce ad andare oltre, sperimentando, facendo della narrazione un gioco piacevole.
Adelmo Farandola ha scoperto la solitudine da giovane, trovando in essa un riparo, una via di fuga per scappare dai pericoli della vita. Disabituato al rapporto con terzi, a un equilibrio personale stabile, barcolla tra passato e presente in una bufera di dimenticanze. Sarà un cane parlante, in pieno stile landolfiano, a costringere Adelmo a tirar fuori un’umanità ormai perduta.
Un anziano chiuso dentro sé stesso, un animale parlante e un piede sul quale sarebbe meglio non dire nulla. Tutti elementi circondati da un senso di sospensione, come se il tempo non contasse nulla e fosse fagocitato dalla magia. A fare da sfondo è proprio quel mondo magico che per Morandini non ha nulla di consolatorio.
La salvezza scompare davanti una natura ostile, fatta di persone difficili, necessità materiali e da montagne sulle quali trovare una finta speranza. Una montagna nella quale più si sale e più si sprofonda.

-Sgela, sgela- implora Adelmo Farandola alla finestra, perché da ieri non c’è più cibo.
-Sgela, sgela- piange il cane, che si ricorda di quella vecchia intenzione di Adelmo Farandola, di mangiare lui.

Saranno i rapporti con gli animali parlanti a sottolineare aspetti inediti, allo stesso tempo ironici e grotteschi, sui quali Morandini dimostra di divertire e divertirsi.
Neve, Cane, Piede è un oggetto metaletterario, un libro sull’indifferenza e la pietà. L’indifferenza manifestata durante il nostro abbandono. La pietà, un elemento che tra la neve mostra il suo candore, quella di un uomo nascosto nell’antro di una grotta, uno spazio materno nel quale racchiudere le nostre paure.

(Andrea Sirna “Pennywise”, Un antidoto contro la solitudine)

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