Favola nera dal vero

La montagna, il bosco, la neve: Rigoni Stern, pensi all’inizio. Ma vai avanti, e il vecchio ti richiama un Rosso Malpelo sopravvissuto alle fatiche, e perché non un’altra figura di Verga, il Mazzarò della Roba? Ma neanche qui puoi dire di averlo capito, Adelmo Farandola.
Perché è vero che è tutto concentrato su di sé e sulle sue cose, ma i soldi che aveva se li è dimenticati in banca e non sa neanche più di averli, e quei pochi che tiene nella sua baracca sperduta sono solo il mezzo che gli permette di far provviste le rare volte che scende fino al paese. Per poi scordarsi, quando è alla bottega, di che cosa ci fosse andato a fare. Ma anche l’eco di un altro vecchio smemorato isolato fra le montagne, il signor Geiser dell’Uomo nell’Olocene di Frisch, si spegne presto: Adelmo non possiede alcun immaginario enciclopedico cui aggrapparsi per non perdere la memoria.
Però c’è il cane, un randagio che gli si è affezionato, e gli parla, dando voce a quel che di umano è rimasto in lui, soprattutto quando dalla valanga spunta un piede. Un piede umano. E qui il racconto si tinge di giallo: di chi è quel piede? Per un po’ crediamo di aver capito dove vuol andare a parare questo racconto. E invece no. Non è neanche un giallo alpino, questo racconto (ce ne sono: pur di scriverne, i giallisti sono arrivati anche in alta quota, vedi Faggiani e il suo forestale detective).
Tra i tanti echi di cui risuona e le molte tracce che semina e subito si perdono, Neve, cane, piede, alla fine si rivela una “storia vera”, a suo modo. Ce lo spiega l’autore, nella “Storia di una storia” con la quale in conclusione si è sentito in dovere di illuminare il lettore. E, si direbbe, giustificare anche di fronte a se stesso il fatto di aver immaginato questa favola pacata e feroce.

(Carlo Simoni, Secondo Orizzonte e Appunti)

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