Vita da eremita in alta montagna

Un uomo vive in montagna, trova un cane, spaventa un guardiacaccia. La vita trascorre senza relazioni e con le necessità ridotte al minimo, fin quando l’uomo e il cane non trovano un piede dissepolto dalla neve. È tutta qui, la trama del breve romanzo di Claudio Morandini: si tratta di un apologo sull’essenzialità, sulla solitudine, sulla rinuncia progressiva ai conforti della vita degli altri, un po’ come ne La strada di McCarthy, ma senza l’apocalissi e con l’ironia a compensare il vuoto di azioni ed eventi. Il cane, un giorno, parla. E parlano in modo del tutto imprevisto altri animali. Poi l’uomo decide di lasciarsi morire e il cane, come nella vieta consuetudine, gli rimane fedele. Tra apologo kafkiano e tradizione eroicomica, Neve, cane, piede si segnala sin dal titolo per la rarefazione d’ambiente che si trasferisce alla scrittura (o viceversa). Nella nota finale l’autore dà conto dell’ispirazione presa dai racconti di montagna e dalla vita degli eremiti alpini: si tratta però di una sorta di excusatio. Adelmo Farandola ci piace pensarlo come uno tra noi, che abbia scelto di non farsi troppo notare (o all’opposto di segnalarsi in modo paradossale), in quella riduzione progressiva al nulla che ripete la fatalità dell’esistere. La vita è il luogo in cui tutto può diventare malinconico o spaventoso, come la terra dopo una nevicata.

(Gilda Policastro, Il Reportage n. 28)

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