Adelmo Farandola, ultimo dei solitari e eroe del recente Neve, cane, piede di Claudio Morandini, è un uomo dei tempi lunghi, dell’inverno senza fine sfiorante l’eternità. Eremita di montagna che rende leggendaria la vita lassù, egli non scherza mai, è vendicativo e testardo, un residuo di quelle antiche “generazioni che la povertà e la limitatezza degli orizzonti rendevano ostinate”. Confonde sogno e realtà, un po’ per diffidenza, un po’ per le strenue astinenze dal cibo, un po’ perché la solitudine lo ha reso afasico e smemorato. Di tanto in tanto, all’epoca del disgelo o prima del grande freddo, Adelmo lascia il romitaggio dell’alpe e scende in paese per provviste, acquattato dietro ai muri a spiare con riserve la vita altrui, dai ritmi e dalla ‘pulizia’ formale cozzante con il filosofico sudiciume che invece separa e protegge Adelmo dal resto del mondo. Da anni ormai conduce questa vita, da quando, lustri prima, l’odore della guerra l’aveva spinto in alto, “nelle combe più nascoste e ingrate” e egli, di nascondiglio in nascondiglio, s’era infine inchiocciolato nel petroso esofago di una miniera di manganese, imparando “il conforto di parlarsi da solo” sulle linee di una retorica semplice ove appendono i loro “cenci scuri” il Sonno, la Fame, il Freddo.
Alla sua porta, un giorno, si struscia un cane. Gli resta tra i piedi, lo annusa, lo studia. Adelmo, avvezzo a figurarsi “le voci delle bestie e delle cose pronte a rispondergli”, trova nel cane un compagno, un’anima con cui dialogare, una coscienza. Non che Adelmo ne abbia bisogno. Sarebbe stato volentieri da solo. Ma non riesce a togliersi la bestia di torno, “lascia che il cane lo assaggi”, che sia l’unico a scavarne l’isolamento degno di un nido peloso di ragno e a gettare quel ponte di animaleschi sensi con il quale nessun essere umano – né la bottegaia, né il guardiacaccia – era riuscito prima a avvincere l’eremita. Il reale si mescola al fiabesco. Il cane non solo parla ma marca l’eloquio suo di saggezza – saggezza del sarcasmo – e, perfino, di compassione. È il cane a avere pietà dei morti come dei vivi, di Adelmo come del cadavere il cui piede, al momento del disgelo, affiora dalla valanga precipitata al fianco della baita. “È come veder crescere i peli di una barba”, dice Adelmo; quel piede sbuca in fuori, minaccioso, ma Adelmo lo ignora. Il cane vorrebbe scavare, scoprire, portare alla luce tutto il corpo e il mistero interno che lo avvolge. Eppure, l’“umanità” del cane confligge con l’etica altra di Adelmo. L’uomo batte vie morali contorte, si ribella al fastidioso ‘grillo parlante’ in cui a tratti si volta il cane. Che domanda pietà, che scuote la coscienza, che reclama l’impeto di un gesto. Ma Adelmo non ha nessuna premura: “Che fretta hai, cane? Lo vedi? è morto. Può aspettare. Possiamo aspettare anche noi”. Tornerebbe, a questo punto, alla mente del lettore quel celebre racconto di Carver, Con tutta quell’acqua a due passi da casa, gli amici che vanno a pescare, scoprono il cadavere nudo di una giovane donna ma non troncano la loro gita, bevono whisky, e si raccontano barzellette sporche. Anch’essi non hanno fretta di denunciare la morte della ragazza, anch’essi ignorano la muta richiesta d’aiuto di quel corpo abbandonato.
Eppure le due situazioni sono diverse, completamente. Là era il ritratto di uomini mai cresciuti, indifferenti, egoisti, portati in miseria a conservare il loro gretto piacere che ignora il passato e elude il futuro. Qui no. Certo anche Adelmo, a dispetto del dinamico volteggio del suo cognome danzante, vive in un oggi perpetuo, manifestato dal ricorso stabile al tempo presente e dallo scarto di rappresentazione tra l’immobilità dell’inverno e l’implacabile disvelare del disgelo. Egli preferisce la stasi o, meglio, l’adimarsi proficuo nelle viscere della montagna (quasi un nuovo Viaggio al centro della Terra), tra le quali s’avvita nell’ostinato perseguimento di un obiettivo allucinante, nella sfocatura permanente di un destino duro, per noi assurdo. Dico ‘per noi’ perché la morale del Farandola ci frana addosso controfattuale, parlando la retorica della natura, “più minerale che animale”, diversa da quella degli altri esseri umani, prossima, con la sua follia, ai lati oscuri dell’utopia.
In questa storia che sempre sbava nella favola, assistiamo al pareggio dell’istinto con la ragione, e non a una ragione decaduta a meschino godimento – com’era quella di Carver. Forse Adelmo è anche un assassino, forse ha ucciso ma come seguendo l’ineluttabile legge di natura. Non che noi si debba condividere il suo habitus, né giustificarlo. Morandini fa a guazzo il ritratto di un uomo che incastona se stesso e le proprie colpe alle viscere della terra. Anzi, restituisce alla terra le colpe che forse l’uomo, suo malgrado – leopardianamente – si è trovato addosso; ignora il discorso del piede, elude quello del cane e si affida alla retorica della neve, del rumoroso e sfrontato silenzio invernale, e nel farlo completa l’arte della dimenticanza e la pratica di svuotare le cantine della memoria, abitate da spettri che vanno e vengono, e di fare le necessarie ellissi pur restando profondamente segnati dal tempo.

  • Share on Tumblr