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Un uomo scende a valle, si chiama Adelmo Farandola e vive da tempo isolato in montagna. A spingerlo in paese è il bisogno di fare provviste per l’inverno, ma forse c’è anche qualcos’altro: un istinto non ancora quietato per la vita. Adelmo parla con fatica e lentezza, perché il silenzio ha ridotto la sua capacità di articolare i suoni; alla bottega della pieve va di rado, prende sempre le stesse cose e tutte razionate: la risalita è dura e l’inverno su alla malga è una questione di disciplina. Prima che la neve lo seppellisca in casa fino alla primavera successiva, Adelmo fa scorte di «salsicce […] e vino. Vino e burro. Burro e sale»; l’uomo non si ricorda di averle già prese, una settimana prima, ma questa piccola amnesia non sembra preoccuparlo. Comincia così Neve, cane, piede. Un racconto lungo che ha un punto di tangenza con il genere della favola (il cane nella storia parla, nonostante non ci sia una morale) e uno sfondo ben calibrato di umorismo nero (evidente nei dialoghi tra animale e uomo, ma anche tra uomo e cadavere), il quale fa pensare — nonostante contesto e intento autoriale siano diversi — all’operetta leopardiana in cui le mummie di Federico Ruysch si mettono a parlare. Il racconto, che si nutre di un carattere perturbante ben distinto, nasce da un’esperienza personale, quella di chi ha visto qualcosa che non c’è. Durante un’escursione in montagna — come si legge nella parte finale del libro, dove Morandini rivela al lettore la “storia di questa storia” —, avviene l’incontro con un vecchio dall’aria minacciosa, pronto a colpirlo con pigne e sassi. Sembra un pastore, accanto a lui c’è un cane, «gonfio di pelo e incredibilmente sporco», ma lì intorno di bestie al pascolo non ce ne sono. Sulla via del ritorno l’autore ha intenzione di parlargli, ma del vecchio non c’è più traccia. Giunto in paese, Morandini rivolge alcune domande agli abitanti del posto: chi è quell’uomo? E chi vive ancora lassù, specie in quella stagione? «Lassù non c’è nessuno», è la risposta della gente, che continua: «Magari era il vecchio Tal dei Tali. […] Ma non era morto? […] Lo hanno visto la primavera scorsa». Per raccontare di questo vecchio che forse non esiste, una sorta di spirito custode di quei luoghi, Morandini recupera l’atmosfera leggendaria delle storie di montagna e di certi suoi personaggi. E non è un caso che uno dei pregi del racconto sia proprio la sua qualità «orale»: lo si vede non soltanto nel caso del tricolon che compone il titolo, ma anche in virtù della vicenda, il cui ritmo si scandisce nella memoria in modo semplice e chiaro, come se fosse raccontata ad altra voce: perché questa è la storia della neve, del cane e del piede, che è il modo in cui la chiamerebbe o ricorderebbe un bambino che la vuole riascoltare. In questo senso, il testo di Morandini si inserisce letterariamente nella tradizione toscana delle «veglie» (si pensi alla famosa raccolta di Renato Fucini), ossia di quelle storie che venivano narrate a sera dai contadini, magari davanti al focolare, d’inverno, per trascorrere il tempo. Morandini racconta la leggenda di un uomo il cui sforzo è quello di assomigliare alla materia e di tendere, al suo pari, al minimo stato di energia e al massimo stato di caos (al punto di confondere la realtà con l’allucinazione, il fatto e la memoria del fatto stesso; trasfigurando fame e inedia, nutrimento e secrezione). Per farlo, l’autore ripercorre la linea sottile che separa vita e morte, concentrando la presenza di entrambe in un luogo di confine tra uomo e natura come quello dell’alta montagna. Lo sfondo d’inquietudine che attraversa l’intera vicenda, e una catàbasi finale che chiude il racconto nel modo più coerente, sono infatti gli aspetti più riusciti e godibili del romanzo di Morandini.

(Diego Bertelli, L’Immaginazione n. 296, novembre/dicembre 2016)

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