Il nuovo romanzo di Claudio Morandini (…) si presenta con il curioso titolo di Neve, cane, piede: titolo enigmaticamente trinitario, così serratamente allitterato, scabro e minimale anche nel ritmo, capace di ottenere da solo un effetto spaesante e allucinatorio; come se neve, cane e piede ce li vedessimo apparire davanti agli occhi quali diapositive su uno sfondo a tinta unita, reiterate una dopo l’altra — non sufficientemente caratterizzate da aggettivi qualificativi o articoli determinativi, a differenza di quanto si evince dal titolo della prossima traduzione francese del libro, Le chien, la neige, un pied (Anacharsis Éditions), della cui variazione grammaticale sarebbe interessante parlare con l’autore e la traduttrice Laura Brignon.
Dunque Neve, cane, piede: non sono solo tre parole, ma — parafrasando Fabrizio Coscia su “Il Mattino” – sono tre “cose”, tre oggetti indipendenti della cui mera evocazione il lettore deve prendere subito atto, come di fronte all’esposizione formale delle note di un surreale documento notarile. Neve, cane e piede non sono i protagonisti del romanzo ma piuttosto le tre figure, i meccanismi narrativi intorno ai quali ruota la vicenda di Adelmo Farandola, antipatico e solitario vegliardo che vive nelle remote profondità di una valle alpina, in completo isolamento, abbandonato anche dalle proprie facoltà mentali e mnemoniche: Morandini descrive le sue allucinate sortite al paese e gli sporadici e freddi rapporti con gli abitanti come esperienze di misantropico spaesamento: una specie di versione degenerata del prete protagonista di Casa d’Altri di Silvio D’Arzo.
Il cane, incontrato per caso nel bosco durante il viaggio di ritorno dal paese, diventa in poco tempo “un’appendice” del corpo del vecchio, nonché il suo più frequente interlocutore: da un momento all’altro scopriamo infatti che il cane, proprio come gli altri animali, ha il dono della parola (almeno secondo la mente deviata di Farandola): non c’è nulla di favolistico o soprannaturale in questo passaggio della narrazione, non c’è innalzamento della temperatura o particolare sforzo stilistico: non è un colpo di scena, ma un passaggio indolore dal plausibile all’incredibile — com’è tipico di certo realismo magico, anche se il nome che viene subito alla mente è in realtà quello di Buzzati, che spesso ricorreva nei suoi racconti alla trasfigurazione umana del cane (o viceversa) e nell’umanizzazione degli animali (Il segreto del bosco vecchio).
Oltreché per la presenza di un Bàrbabo delle Montagne (un fin troppo socievole guardacaccia), nella trama di Neve, cane, piede l’eco del Buzzati dolomitico ritorna più precisamente nella cornice in cui si svolge la scarna vicenda: un paesaggio alpino innevato, silente e oppressivo, qui in Morandini se possibile ancor più crudo e impenetrabile, à la Perturbamento di Bernhard, cioè scevro di qualsiasi gradevolezza estetica, chiuso in un’atmosfera rarefatta, da strozzamento, da flatulente decesso per ipotermia (cfr. la misconosciuta serie tv Fortitude per capire cosa intendo); una spietata e claustrofobica narrazione resa appena tollerabile solo dalla sprezzante ironia del cane. Inoltre, se la carica metafisica di Buzzati spingeva i suoi personaggi ad alzare gli occhi verso le cime interrogandone il mistero più nero, la valle dove vive Adelmo Farandola è un imbuto, una buia gola aspra dove la realtà diventa un grottesco quadro monocromatico nel quale si sprofonda, da cui non si risale per sentieri battuti.
Il colore dominante del quadro è, manco a dirlo, il bianco della neve, che nell’implacabile inverno di Morandini erige un monolitico muro tra l’io e la realtà, tra la ragione e la conoscenza, tra la vita e la morte: un piede conficcato nella neve, rinvenuto da Farandola nei pressi della casa durante il lento disgelo primaverile, interrompe l’oppressiva dittatura del bianco che fa indistinte tutte le cose, e prepara la strada per il delirante epilogo della vicenda, che presenta qualche tangenza con il racconto Il gatto nero di Poe.
I paesaggi innevati nei quali impazzisce Farandola rievocano la vertigine del foglio bianco, l’orizzonte dell’infinitamente possibile nella forma angosciante del vuoto, il terrore e il candore del significato che sfugge, l’impalpabile macchia d’inchiostro che gradualmente prende corpo sul foglio senza definirsi, come uno stile discreto ma inconfondibile, come l’orma di un passo nella neve: sappiamo la specie dell’essere che l’ha impressa, ma non ne conosciamo i dati anagrafici. E dunque, è difficile capire di chi è il cadavere sepolto nella neve, chi lo ha ucciso, quale disperata e mortifera solitudine ha seminato intorno a sé, quando ormai la neve si è sciolta e la storia è già stata scritta.

(Bernardo Pacini, Argo)

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