Adelmo Farandola si è convinto da un pezzo che se qualcosa non va nella sua testa è per via di quegli anni passati sotto i cavi dell’elettrodotto. Sono matto, sono matto, si ripete allora, senza enfasi però, come fosse una normale constatazione, perché a qualcuno quei cavi dovevano pur toccare, e sono toccati a lui.
– Sono matto? – chiede anche al cane.
– Diciamo un po’ strano, sì.
– Sono i cavi dell’alta tensione.
Il cane alza lo sguardo, non ne vede. – Quali cavi?
– Quelli di quand’ero bambino.

Neve, cane, piede. Il romanzo di Claudio Morandini si riassume in queste tre parole, che come la copertina concentrano icasticamente gli eventi contenuti nelle poche pagine del libro.
Adelmo Farandola è un montanaro solitario che tende ad allontanare tutti dal suo cammino. È un uomo che ha vissuto gran parte della vita nascosto, prima da partigiano e poi per scelta, e che piano piano ha ceduto a una sorta di lucida follia: paranoico, diffidente, silenzioso. Adelmo Farandola, che l’autore chiama sempre per nome e cognome, non si lava da anni, perché convinto che lo sporco lo tenga più caldo e che il sapone sia pericoloso. Tiene a distanza le persone con un fucile, lo stesso con cui uccide, ovviamente senza badare a stagioni e permessi, la selvaggina di cui si nutre. Anche se, spesso e volentieri, Adelmo Farandola approfitta delle carcasse degli animali uccisi dalle slavine. La gente a valle lo prende per pazzo, lui se ne disinteressa. A un certo punto della sua vita solitaria Adelmo Farandola incontra un guardiacaccia, che scaccia brutalmente più di una volta, arrivando a minacciarlo. E incontra un cane, che prende con sé per svogliatezza, o per insistenza del cane stesso, e presto si abitua alla sua compagnia. Dopo una nevicata particolarmente intensa, che tiene lui e il cane quasi sepolti vivi nella baita isolata per mesi e mesi, Adelmo incontra anche un piede.

Si avvicinano al fronte della valanga. Adelmo Farandola è contento, perché ha già intuito che cosa può avere attirato l’attenzione del cane. Dai cumuli di neve, con il passare del tempo, emergono sempre corpi di animali morti, di camosci e stambecchi e capre in fuga, che lo schianto ha fatto a pezzi ma che il gelo ha conservato freschi. Anche lui approfitta di quel ben di dio, ed estrae le carcasse dal ghiaccio, pezzo per pezzo, e se le cucina, perché in primavera le salsicce sono finite da un pezzo, la carne in scatola è un vago ricordo, e quelle zampe e quei costati e quei colli di camoscio o di stambecco sono ben conservati, e una volta spelati e ripuliti dalla terra sono buoni, e anche gli ossi danno un buon brodo, che lui colora con un bicchiere di vino, se gli è rimasto del vino.
– Che bestia è? – chiede al cane.
Il cane zitto.
– Non sai che bestia è? –
– Non è una bestia – sussurra il cane, immobile.

È un piede umano: di chi è? E cosa farne? E cosa è successo al proprietario di quel piede?
Neve, cane, piede non è un noir, ma la sua scrittura e l’evoluzione degli eventi hanno una cupezza quasi claustrofobica, assecondata da una lingua secca e netta, che punge come il ghiaccio da cui i protagonisti sono circondati. Non bisogna però immaginare una storia dall’estremo realismo, una storia in cui si narra solo quello che succede: perché se il titolo riassume magistralmente i fatti principali, non dice ciò che avviene intorno a essi. Non dice la mente paranoica, odiosa, diffidente di Adelmo e quella sua sorta di progressiva affezione al cane, non dice i commenti del cane (perché il cane parla con Adelmo, come Adelmo parla con il cane). Non dice tutto quello che Adelmo e il cane vedono e fanno. E non dicendolo, lascia nel dubbio anche il lettore. È verità? È immaginazione? Il sottile filo di ironia che percorre costantemente il racconto, il guizzo sarcastico e bonario che si legge nella penna di Morandini non fa che alimentare il dubbio.
Morandini in appendice racconta com’è nata l’idea di questo romanzo. Lo sguardo malevolo di un montanaro incrociato camminando, un paesaggio ostile fatto di silenzi: ogni singola parola del libro racconta questa storia. Quella di Morandini è infatti una scrittura tagliente: non sintetica né stringata, ma precisa. Una lingua che, come la neve, ritaglia i contorni di ciò che si osserva. Anche quando si perdono le tracce, immersi nel bianco, e si comincia a dimenticare il passato. Perché Adelmo Farandola, uomo dall’eterno presente, dalla mente semplice infarcita di ossessioni, ha una storia, che emerge tra mille contraddizioni, a fatica, come ricordi lontani. C’è un fratello e ci sono dei soldi, laggiù nella valle, ci sono persone che lo cercano e che forse tengono a lui, ma non sono importanti: ciò che conta è mangiare, sopravvivere alle tormente di neve, scoprire di chi è quel piede. Aspettare il disgelo, forse, o arrendersi ad esso.
La scrittura di Morandini, dicevamo, è tagliente, ma non realistica («I passi cigolano con pena, sulla neve giovane, e ogni passo sembra un singhiozzo di pianto. Ogni fiocco percuote le finestre e le superfici con un rumoretto nervoso, come una voltata d pagina di un libro troppo lungo. E quando la temperatura si fa meno rigida, ecco che i blocchi di ghiaccio urlano fino a spaccarsi, sono colti da scariche di tosse, indulgono a fragori di tuono o di scoreggia»). Tutto in questo libro è antropizzato, è umano, interagisce con il lettore: perché Adelmo parla col cane, coi corvi, con le volpi e il cane, i corvi, le volpi gli rispondono. Gli credono, al contrario degli umani che si tengono a doverosa distanza. E Adelmo, a un certo punto, parla anche col piede: e il piede gli risponde, con tutto l’umano morto a lui attaccato. È da conversazioni tipo queste che si scopre la storia di Adelmo e forse anche quella del cadavere. Una storia forse prevedibile, ma forse falsa: il lettore arriva a intuire la verità solo alla fine, districandosi tra le mille false partenze, ma Adelmo Farandola è ormai troppo perso nel bianco e nelle sue ossessioni per essere altrettanto razionale.

Si metterà a scodinzolare, appena quelli allungheranno la mano per una carezza. Si metterà a pancia all’aria e implorerà altre carezze, quella vergogna del genere maschile. E se loro gli chiederanno: “caro, dov’è Adelmo Farandola?”, lui dirà subito: “lì dentro, carissimi, lì dentro a una galleria della vecchia miniera, infilato nella roccia come una supposta su per il culo”. “Davvero? Grazie infinite, caro”. “Non c’è di che, amici, se volete vi ci accompagno. A proposito, che c’è per cena?”.
Così farà, il bastardo. Mai piaciuti i cani. Così farà.
– Be’ – sospira l’uomo morto accanto a lui.
– Be’ cosa?
– Sarebbe un guaio se ci scoprissero.
– Infatti.
– E non penso a me, in questo caso. Io ormai… Ma sono preoccupato soprattutto per te.

È difficile provare simpatia per una figura come quella di Adelmo Farandola, ma la bravura di Morandini sta nel rivestire di un’umanità pietosa e totale una figura come questa, cui basterebbe molto poco per trasformarsi in una macchietta a metà tra il Grinch e il nonno di Heidi. Adelmo Farandola, quest’uomo che Morandini chiama sempre per nome e cognome come a ricordarci la sua identità, almeno a noi, che lui l’ha dimenticata, è spregevole, è un povero odioso pazzo. Ma per lui al lettore si stringe il cuore: sempre meno appare la caricatura e sempre più l’immagine di un uomo solo e incattivito che si salva, in finale, grazie all’amore che Morandini riversa su di lui, sulla montagna, sullo stesso mestiere dello scrittore e dell’invenzione letteraria.

(Silvia Costantino, Ultima Pagina)

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