Sarà più ostinato Adelmo a scacciarlo o il cane a cercare di rimanergli tra i piedi?
Sembra una domanda da nulla, ma non lo è. Te ne accorgi subito, al terzo capitolo, quando i due cominciano a parlarsi. Ma facciamo un passo indietro, non lasciamoci subito prendere la mano dal racconto, ordino a me stessa.
La premessa: i sostenitori dell’iniziativa Modus legendi (di cui ho già parlato e di cui trovate ampie tracce nel blog qui e qui) hanno decretato il romanzo vincente tra i cinque selezionati. Si tratta di “Neve, cane, piede” di Claudio Morandini, vincitore della XXIX edizione del Premio “Procida – Isola di Arturo – Elsa Morante” 2016.
Prima della votazione, ho letto varie recensioni ed interviste, perché il titolo mi incuriosiva molto. Tre parole messe in fila, separate dalla virgola, senza articoli. Essenziale ed evocativo, ho pensato. Poi c’era la parola cane … Sempre più incuriosita, sono andata a cercare le citazioni riportate nei vari articoli, tanto per capire un po’ lo stile. Perché a me piace lo stile essenziale, asciutto, senza fronzoli e chi scrive (oltre ad essere) di montagna, in genere, tende a quello. Un po’ alla Calvino, se posso dire (…).
Il romanzo è ambientato in vallone sperduto, in una montagna non definita – potrebbe trattarsi di qualsiasi località alpina, non importa -; al centro della storia c’è un anziano montanaro, eremita per scelta, scontroso e un po’ smemorato. Quei vecchietti burberi che capita di incontrare per le viuzze dei paesi con le case di pietra in alta valle, che non ti rivolgono la parola, semmai un grugnito, schivo e concentrato a perdersi nei suoi ragionamenti, nei quali si fa domande e si risponde e si convince di quello che vuol credere, che non sempre coincide con la realtà.
Un uomo che si è talmente isolato da sembrare sempre meno umano e quasi più parte dell’ambiente naturale, anch’egli terra, sasso, roccia e neve; a tal punto che quando il cane, spuntato fuori dal nulla, gli si attacca alle calcagna e comincia a parlare, ti viene da pensare che quello umano sia lui, invece del vecchio.

La lingua del cane sgocciola come un rubinetto che perde, e la bava si deposita a terra in una chiazza sempre più larga. Al secondo boccone intinto nel vino, il cane comincia a inghiottire bocconi immaginari.
Potrei assaggiare anch’io? – chiede finalmente all’uomo.
No – dice Adelmo Farandola, che attacca con il terzo boccone.
Solo un pezzetto – dice il cane. – Ti prego. Solo un pezzetto piccolissimo.
– No.
– Solo per farmi un’idea. Come posso sapere se quello che dici è vero se non assaggio?
– Tu fidati.
– Preferirei sperimentare di persona.”

Ecco, comincia così il dialogo, e la relazione, tra il vecchio e il bastardo, e prosegue, spesso spiazzando, a volte confondendo i ruoli e scambiando i connotati, umani e animaleschi, in un rimando di atteggiamenti, e comportamenti, in un rimbalzo continuo, con ironia. Ed ecco che il cane ricorda il suo passato glorioso.

“- Ah, gli anni da pastore! – divaga il cane. – Li ricordo con nostalgia. Non la noia, o le botte, o il freddo, che d’altra parte bisogna mettere in conto, no? Se sei un cane, voglio dire, son cose che fanno parte della vita. No, rimpiango il lavoro. La sensazione piacevole che provavo la sera, il piacere del lavoro ben fatto.”

Morandini definisce il cane “un personaggio da commedia”, perché gli piace conversare, con buone maniere e garbo per non offendere l’uomo, con un filo di ironia a mantenere allegro un tono che potrebbe, se non ci fosse maestria, calare nel cupo compiacimento. Il cane è ragionevole, dice cose sensate e richiama l’uomo a prendere atto delle evidenze che si parano innanzi a loro e delle quali, Adelmo, confonde il prima e il dopo, la causa e l’effetto.

“Adelmo Farandola ha scoperto i vantaggi della solitudine da giovane, durante un lungo periodo di fuga tra boschi, dirupi e miniere abbandonate, del quale serba ricordi lontani e imprecisi.” 

Una fuga dalla società, un allontanamento perseguito con ostinazione, rotto soltanto da brevi scappate al paese per approvvigionare le risorse per superare l’inverno. E dai brevi incontri con un guardiacaccia che di tanto in tanto lo va a visitare, che si preoccupa per le sue condizioni di salute. Un personaggio che sembra un po’ l’autore che si preoccupa della sua creatura …
Un lungo inverno in cui l’uomo e il cane, rimangono isolati nella baita sotto metri di neve, e durante i quali l’uomo ripercorre i ricordi della sua vita, in un confuso orizzonte di presente e passato, di realtà ed immaginazione.

“In quell’inverno lungo, lì sotto la neve, lungo fino a sfiorare una specie di eternità, nelle giornate immobili che diventano notti senza che lo si sappia, Adelmo Farandola lascia che la veglia e il sonno si confondano. I personaggi che si intromettono nei suoi sogni finiscono per rimanere accanto a lui anche durante il giorno.”

Fino al disgelo, quando qualcosa di strano, e imprevisto, accade.

– Che annusi? – chiede l’uomo.
– Sento un odore – dice il cane.
– Senti sempre odori, tu.
– Sì, ma questo è forte. Annusa anche tu.
– Non sento niente.
– Usa gli occhi, allora. (…)
– Che bestia è? – chiede al cane.
Il cane zitto.
– Non sai che bestia è?
– Non è una bestia – sussurra il cane, immobile.

Ed ecco che entra il gioco il terzo elemento del titolo: il piede.
Basta, della trama non dirò più nulla; leggetelo, per scoprire che piega prende la storia.
Della conversazione con l’autore, vorrei citare una metafora che egli stesso ha proposto di sé e del suo dare vita alla storia:
“lo scrittore è come un giardiniere che via via pota la pianta, ma la lascia crescere, lascia che si sviluppi nella direzione che vuole prendere”, non è “un perfetto giocatore di scacchi” che muove le pedine secondo un meccanismo perfettamente congegnato.
È un romanzo che si legge tutto di fila, di quelli che non riesci a mettere giù finché non arrivi all’ultima pagina. Una scrittura che va per sottrazione, uno stile asciutto e essenziale. Una montagna raccontata senza indulgenza, senza elementi bucolici, ma ripresa nella sua reale potenza, a volte feroce, un elemento che incute rispetto e talvolta paura.

“La gente immagina che la montagna sotto la neve sia il regno del silenzio. Ma neve e ghiaccio sono creature rumorose, sfrontate, beffarde. Tutto scricchiola, sotto il peso della neve, e sono scricchiolii che tolgono il respiro, perché sembrano preludere allo schianto di un crollo.”

Riporto, dalla “Storia di questa storia” che trovate alla fine del romanzo, i riferimenti letterari dell’autore:
“(…)  i romanzi di Charles-Ferdinand Ramuz, che nessuno sembra voler più leggere, o i folli picari di alpeggio dipinti in lingua romancia da Leo Tuor, da Oscar Peer e da Arno Camenisch, o i personaggi disturbanti di Jacques Chessex”
A conclusione dell’incontro, l’autore conferma che ad aprile uscirà il suo nuovo romanzo “Le pietre”: un titolo ancora più emblematico!

(Pina Bertoli, Il mestiere di leggere)

  • Share on Tumblr