Intervista a Claudio Morandini: scrivere è ostinazione, disponibilità a mettersi in discussione
Claudio, tu hai fatto cose molto diverse: hai scritto per la radio, la tv, hai scritto racconti e romanzi. Come sei passato da una forma di scrittura all’altra, e cosa ti è rimasto delle varie pratiche narrative?
Di sicuro delle lontane esperienze di scrittura di radiocommedie (parliamo degli anni Ottanta!) mi è rimasto un certo gusto per le scene dialogate, oltre che la tendenza a impostare le scene come momenti di teatro. Sono stato un vorace lettore di testi di teatro, da ragazzo (mi è sempre piaciuto più leggerlo che andare a vederlo): e mi sono rimasti appiccicati certi autori come Pinter (il drammaturgo, ma anche lo sceneggiatore), Ionesco, l’inevitabile Pirandello, perfino Campanile. E Beckett, ça va sans dire. Scrivere radiocommedie mi ha insegnato anche a lavorare giocando sulla combinazione di pochi ingredienti, a economizzare, insomma. Bastava un verso d’uccellino per suggerire un intero bosco, o il ticchettio di un orologio da parete per far immaginare un soggiorno perfettamente arredato. Cose così. Ma non parliamo troppo di quelle lontane esperienze, credo che il meglio sia venuto diversi anni dopo.
Sono passato alla narrativa quando gli spazi messi a disposizione dalla RAI di Aosta per cui scrivevo si sono chiusi. Allora il mio desiderio di raccontare storie si è orientato verso i racconti e i romanzi, e qui inizia un’altra storia, quella di un lungo apprendistato.
Parlaci di questo apprendistato… ci dirai dei tuoi maestri letterari, ci sono stati però anche dei veri maestri, delle persone che in qualche modo ti hanno aiutato? E, più in generale, come è stato questo apprendistato?
Mah, il mio è stato per lo più un apprendistato solitario. Anche qui, si è trattato di impadronirsi di una tecnica, e di costruirsi una voce. Non ci sono ricette per questo, temo: contano per lo più l’ostinazione, la disponibilità a mettersi in discussione fin nelle virgole e una buona biblioteca. Mi sono allontanato da certi vezzi che non mi avrebbero portato da nessuna parte – una certa propensione alla parodia e al pastiche, per esempio, un mescolare un po’ meccanico cliché di generi e sottogeneri, una certa indulgenza stilistica all’eccesso baroccheggiante, una dipendenza eccessiva da atmosfere e situazioni cinematografiche… Ho scritto tanto, e con gusto, però appunto si è trattato di esercizi, da cui avrei in seguito tratto qualcosina da infilare nei romanzi successivi, ma che sono rimasti dov’era giusto che rimanessero.
Sempre in merito alla scrittura (e alla lettura): quali sono le letture che ti hanno formato? Come si ritrovano nelle cose che scrivi ora?
Jules Verne letto da bambino, di sicuro. Se ai miei personaggi è rimasta la voglia di sprofondare nel sottosuolo e di scavare fino a raggiungere tracce di una preistoria remota è perché il Viaggio al centro della terraagisce ancora in me. Poi Ionesco: non tanto per il gioco autodistruttivo sulle convenzioni del linguaggio, perché insomma Achille Campanile in questo senso è più interessante e mi pare regga meglio il passare dei decenni, ma per l’accumularsi, l’ingrandirsi angoscioso e comico insieme delle cose: le sedie, i rinoceronti, il cadavere… Poi (sto citando senza seguire un ordine) il Satyricon di Petronio come ci è giunto, eroso dal tempo, frammentario, incomprensibile. Il Gordon Pym, naturalmente: dimenticavo di respirare quando lo leggevo. E ancora, I viaggi di Gulliver: mi hanno insegnato la perfidia dello sguardo, l’interesse degli aspetti più sconvenienti, l’uso di tutti i sensi. E Palazzeschi, tutto, perché scrivere è un gioco in cui crudeltà e compassione non si contraddicono.
Ti cito poi un regista: Jacques Tati. Vorrei avere la sua grazia stilizzata nel raccontare le minuscole inquietudini. E un musicista: Stravinskij. Vorrei avere la sua libertà e il suo distacco ironico nel muovermi tra tradizione e innovazione. In genere mi interessano tutti gli artisti che si pongono ogni volta il problema della forma, della costruzione e non si contentano delle soluzioni più comode.
Maestri ce ne sono stati e continuano a essercene. Molti li ho già nominati. Ne cerco e ne scopro di nuovi ogni volta. Il mio personale canone è tutto un va-e-vieni, è molto accogliente e ci vanno tutti d’accordo. Scrivere ti mette nella condizione di non smettere mai di rifarti a dei maestri: è una condizione che ti costringe a una specie di riconoscenza continua, anche a continui gesti di umiltà. Se in quanto autore non hai la percezione di questo debito di riconoscenza forse non vali molto, le tue pagine non risuoneranno degli echi degli autori che si sono misurati molto prima di te con quei temi, quelle situazioni, quelle domande.
Poi, certo, è bene che questi maestri non si facciano troppo sentire in ciò che scrivi, è bene che le tue pagine non si trasformino in esibizioni di citazioni, rimandi, ammiccamenti, giochi di società. Tienili nascosti, i tuoi maestri, dialogaci quando scrivi, ma in modo sommesso, facci i conti e litigaci pure, ma che non si sappia troppo in giro. Insomma, mi sento piuttosto lontano sia dagli autori che non sentono di avere debiti sia da quelli iper-colti che di debiti ne hanno troppi e li ostentano.
Dai maestri più amati bisogna saper prendere le distanze, anche, secondo me. Gadda, per dire, o Landolfi, è importante portarli nel cuore, ma allo stesso tempo correggere il rischio di diventare degli epigoni attraverso robuste cure di, che so, Soldati, o Arpino, o Levi.
Poi ho i miei piccoli culti personali: Loria, D’Arzo (da tempi non sospetti), Mattioni… Ma basta nomi.
In merito alla scrittura, c’è un metodo che tu utilizzi per scrivere. Parti da una scaletta, da un’immagine… e come procedi per scritture e riscritture? Potresti farci l’esempio di un paio di lavorazioni?
Se posso, non parto da un progetto definito. Lascio che le situazioni nascano da una piccola idea iniziale, che germinino per conto loro. All’inizio non so nulla di come si svilupperà la storia, e so ben poco dei personaggi che si delineeranno senza fretta. Ecco, forse so soltanto che cosa non dovrebbe diventare il romanzo a cui sto lavorando: per esempio, avevo ben chiaro, durante la stesura di Neve, cane, piede, che l’idea del piede umano che spunta dalla neve non doveva svilupparsi nella direzione del noir diciamo scandinavo. Sentivo che quel piede doveva rimanere lì come un punto interrogativo, e che l’identità dell’uomo attaccato a quel piede doveva rimanere un enigma: ogni soluzione avrebbe banalizzato, addomesticato quell’enigma, avrebbe rassicurato, e io non vorrei rassicurare il lettore, ma invitarlo a inquietarsi con me.
Da tutte le pagine che si sono accumulate nell’arco di qualche mese o di qualche anno spuntano prima o poi dei fili, delle connessioni, che legano episodi lontani, avvicinano ciò che sembra incompatibile, danno un po’ di coerenza, di compattezza. Per me è un momento esaltante, questo, è il momento in cui dal materiale bruto, scritto in ossequio al solo piacere di inventare, emerge a poco a poco un insieme, una direzione. È il momento del montaggio, della composizione, dell’armonizzazione, che però è bene portare avanti fino a un certo punto. Le storie troppo concluse non mi piacciono: meglio lasciare qualche zona d’ombra, qualche buco, qualche smagliatura, perché è lì che potrebbero nascondersi le cose più interessanti, i dubbi più forti, le paure (o le speranze) più insinuanti. È lì, soprattutto, che può accomodarsi il lettore, chiamato proprio a dire la sua, a riempire quei vuoti, a provare a terminare l’opera.
Questo, che non è proprio un metodo, è il mio modo di lavorare a una storia, e lo è stato sin dagli inizi, anche se ora ne sono più consapevole.
Inoltre, come organizzi le tue giornate di scrittura… ti dai dei tempi, procedi metodicamente o meno?
No, non sono metodico: approfitto dell’estate, delle vacanze, dei ponti, delle attese in stazione o in aeroporto. Non cerco per forza il silenzio. Non ho scadenze (nessuno me le ha mai imposte, è uno dei vantaggi dell’essere un autore di nicchia). E quando accetto di scrivere qualcosa per qualcuno su un determinato tema, aspetto che l’idea venga. Di solito, per fortuna, viene quasi subito.
All’inizio sono colto da una specie di impazienza, e sono capace di scrivere per ore, come un matto. Mi tranquillizzo un po’ quando vedo che il numero di pagine è cresciuto a sufficienza. Sono un accumulatore, la quantità mi rassicura. Ma mi capita anche di passare mesi senza scrivere: riscrivo, allora, o recupero un po’ di freschezza, leggo e rileggo, cincischio.
In Neve, cane, piede vengono raccontati un’emarginazione e un disagio mentale, ti sei documentato su queste cose? Come nasce il personaggio di Adelmo?
Adelmo non è un caso clinico: il suo malessere, sempre più evidente man mano che si procede nella lettura, non è classificabile univocamente. Non mi sono documentato – non su questo –, ho lasciato che il personaggio si sviluppasse così, da sé. Adelmo è sulla via della demenza, d’accordo, ma non tutto ciò che gli accade o che lui ritiene gli stia accadendo può essere diagnosticato. Adelmo rimane in effetti un mistero, anche lui come il piede, forse anche più del piede: lo seguiamo senza capire i suoi gesti, ci chiediamo se fugga da qualcosa o se insegua qualcosa, se abbia un progetto, per quanto confuso, o sia solo governato da impulsi primordiali. Io non lo so chi o cosa sia in realtà Adelmo, ed è questo che ho voluto trasmettere ai miei lettori: una domanda, un’inquietudine, un senso anche di frustrazione, di impotenza.
Anche qui, sapevo soprattutto cosa non doveva diventare Adelmo: l’ennesima riproposizione del vecchio montanaro magari un po’ stranito ma saggio. La letteratura di montagna è già affollata di vecchi eremiti ultimi testimoni di uno stile di vita che non c’è più (e forse non c’è mai stato). Il mio Adelmo non è un nostalgico dei bei tempi, punta molto più lontano, al paleolitico, anzi a un’epoca in cui l’uomo non c’era ancora.
Nel corso degli anni, Neve, cane, piede e lo stesso Adelmo Farandola sono stati per così dire adottati da molti lettori di tutta Italia. Si è creato un bellissimo paradosso: una storia di solitudine, di regressione a uno stato preistorico, con al centro un vecchio inavvicinabile, folle e pericoloso, è diventata la storia di molti. Adelmo è diventato oggetto non solo di interesse, ma proprio di affetto, e attorno a lui, nonostante i suoi lati più respingenti, si è creato un moto solidale di simpatia. Si è riconosciuto in Adelmo (e nel cane, nel mondo angusto abitato da entrambi) qualcosa di comune, di nostro: si è sentito il bisogno di preoccuparsi per lui, di dispiacersi, di seguirlo comunque, nonostante tutto, fin dentro la terra. Tutto questo c’era, in effetti, nascosto nel libro, nascosto anche a me: certi momenti inaspettati di affettuosità del vecchio nei confronti del cane, certi ricordi confusamente nostalgici, le premesse c’erano, erano concrete, solo velate, nascoste. Forse lo si è addomesticato un tantino, Adelmo, glissando sui suoi gesti più terribili, sul suo aspetto ripugnante, sulla deriva della sua mente. Ma tant’è, è perfettamente legittimo.
Neve, cane, piede da quale scena nasce e come si è costruito?
Dal piede che spunta dalla neve, da quell’immagine lì. Il resto è spuntato dopo, da sé, un po’ alla volta. Chi osservava la scena? Dove era caduta tutta quella neve? Che cosa è successo? Eccetera. L’incontro con il vecchio montanaro che prende a colpi di pigna l’Autore raccontato nelle ultime pagine è invece un’invenzione, la prosecuzione del gioco con il lettore – episodio non accaduto, ma che sarebbe potuto accadere, e che in effetti pare sia accaduto sul serio, a diversi lettori, e dunque a modo suo è vero. Ho lavorato con gusto e senza pena attorno al libro per un paio di mesi, già nel 2011 o giù di lì. A volte capita che gli sviluppi sgorghino facili, e allora è importante lasciare che le pagine si riempiano e che crescano per conto loro, e limitarsi a sforbiciare qua e là.
Mi pare, dunque, che per te sia più importante il lavoro di revisione rispetto al momento in cui butti giù la prima stesura, nel senso che il romanzo prende forma più avanti nel tempo. Come procedi nelle revisioni?
Come dicevo, la prima fase è il tracimare dell’invenzione, mentre le fasi successive rispondono a un’altra esigenza più sottile, e non aliena da un po’ di sofferenza, quella della ricerca del tono giusto, della precisione, di un equilibrio. Si passa alle riletture, al controllo dei riferimenti, al taglia-e-cuci di capitoli, sequenze, frasi, singole parole. Cito spesso a questo proposito Teo Macero che smonta e rimonta le improvvisazioni torrenziali del Miles Davis dei primi anni Settanta: si parva licet con quel che segue, prima ho improvvisato in lunghe jam session, ora mi dedico a costruire, do una struttura, partendo da quel materiale lì, informale, bruto. Ecco, in questa fase divento un po’ il filologo di me stesso. È la parte più artigianale, lenta, meditata, del lavoro, la più lunga, anche – si concluderà chissà quando, sulle bozze di stampa. È anche quella in cui comincio a sentire il bisogno di confrontarmi con qualcuno, di sottoporre ciò che ho scritto alla lettura di altri occhi. La mia prima lettrice è mia moglie Marilisa. Tengo sempre in gran conto le osservazioni altrui, perché non credo sia il caso di arroccarsi in una difesa a oltranza della propria presunta esemplarità. E continuo a tornare su ciò che ho scritto, anche con il pensiero, per un bel pezzo.
C’è una costante di tema o di immaginario che lega i tuoi romanzi?
Cerco di scrivere sempre storie diverse, collocate in luoghi diversi. Mi ossessiona, in un certo senso, il rischio di ripetermi. Per questo passo da un genere all’altro, o meglio da una mescolanza all’altra di generi, anche se non mi sento per forza un eclettico, un postmoderno che pratica un allegro crossover. Però, allo stesso tempo, mi accorgo che libro dopo libro sto esplorando zone contigue di una medesima geografia immaginaria, che ormai, giunti al settimo romanzo con Le pietre, si sta definendo. Le montagne che apparivano lontane, sullo sfondo della pianura piattissima de Le larve sono le stesse in cui ho ambientato parti di A gran giornate e in cui sono tornato per Neve, cane, piede; certi personaggi hanno preso addirittura l’abitudine di passare da un libro all’altro, anche solo per una comparsata (capita anche a Nora, la protagonista del mio primo romanzo, di ritrovarsi bibliotecaria in A gran giornate; capita anche al guardiacaccia di Neve, cane, piede di fare una capatina in Le pietre). Questo di sicuro è un elemento di continuità, che assecondo, perché appunto mi interessa molto disegnare pazientemente, libro dopo libro, la mappa del mondo pieno di contrasti che vado immaginando, e che assomiglia un po’ a un’Italia filtrata però attraverso l’immaginazione o il sogno.
Poi, credo ci sia, come costante in ciò che scrivo, uno sguardo sempre un po’ distaccato (qualcuno me lo rimprovera ancora), incuriosito dall’insolito, pronto a mettere a fuoco i particolari meno scontati e a lasciare nel flou tutto il resto. Una volta dicevano che era uno sguardo cinico, e la cosa mi faceva arrabbiare: non mi sento cinico, semplicemente resto attento a ciò che non si vede e magari non si vorrebbe vedere, o ascoltare, o annusare. Ma questo dovrebbe farlo la letteratura sempre, no?
Infine: come sei arrivato alla pubblicazione?
Abitare in una zona di confine come Aosta, lontano dai centri nevralgici della cultura e dell’editoria, comporta qualche vantaggio ma anche diversi inconvenienti, tra cui una certa difficoltà di contatto con le persone giuste. Certo, Facebook e internet in genere aiutano a coltivare i rapporti e a incrementarli, ma la visibilità diciamo fisica viene comunque a mancare, e poi non riesco a essere un vero animale da social. Per fortuna posso contare su un’agenzia letteraria come Otago, che mi rappresenta e in questi anni mi ha aiutato a collocare i miei libri in cataloghi sempre più validi. A volte le intese sono particolarmente rapide, i connubi riescono bene: è stato così anche per la traduzione francese del romanzo, grazie alla traduttrice Laura Brignon, che dopo aver letto e amato il libro lo ha proposto alle Editions Anacharsis, et voilà, la cosa è andata in porto, e Neve, cane, piede è diventato Le chien, la neige, un pied.
Ci sono dei luoghi che ti aiutano a scrivere? Hai uno o più spazi di scrittura, e come sono?
Casa mia è un luogo perfetto per la scrittura, soprattutto ora che scrivo direttamente al computer le prime stesure, perché sulla tastiera sono più veloce e non rischio di perdere per strada gli spunti, le parole. Sto seduto al tavolo, vicino al lettore CD, in mezzo ad altri libri, oppure spaparanzato tra i cuscini dell’abbaino, dipende dalle ore del giorno.
A mano lavoro a lungo sul testo stampato (stampo ogni versione e ci pasticcio su a lungo, gonfio le pagine di post-it), e uso la penna ogni volta che devo integrare, o sento di dover ricorrere a una scrittura più lenta, più attenta.
Chiudo con una domanda un po’ filosofica… che cosa significa per te scrivere? Perché scrivi e perché scrivi proprio le cose che sono finite nei tuoi romanzi?
Premetto che a me le teorie sulla scrittura e sulla letteratura piacciono tutte, è imbarazzante. Mi riconosco in tutte, o quasi, e da tutte finisco per imparare. A questo punto possiamo dire che ho un approccio empirico alla faccenda della scrittura: scrivere è un modo per misurarmi con ciò che sta lontano da me. Non dentro di me, non accanto, proprio lontano: l’altro, il nuovo, il remoto, l’incompatibile, lo sconosciuto. La sfida sta nell’osservarlo, nel metterlo a fuoco almeno in parte, nell’intuirne la complessità, l’irriducibilità – e a quel punto scoprire che, riflesso di sbieco, c’è pure qualcosa di me in quell’altro, anche se non lo voglio. Con un tipo come Adelmo Farandola è andata proprio così. Scrivere è ovviamente anche un modo per comunicare tutto questo, per condividerlo. Ed è pure la rivendicazione di una libertà – di sguardo, di approccio, di stile, di scelta di modelli, che so, di percorso. È un inseguire la realtà per quel che vi è di irrisolto, di caotico, di incomprensibile, di contraddittorio, di sfilacciato: un inseguirla, un invidiarla, un tentare di imitarla (questa è la mia personale idea di realismo). E il romanzo, proprio per il suo carattere ibrido, contaminato, mi pare il luogo più accogliente per praticare tutto questo.