Qualche mese fa, Claudio Morandini era passato da Bologna, facendo tappa alla Libreria Trame per una presentazione. Ricordavo di averlo inserito nel Calendario Letterario che stilo tutte le settimane, ma non mi ero soffermata particolarmente sul libro. Quando Modus Legendi propose la rosa finale di 5 titoli da votare per la sua Rivoluzione Gentile, non ebbi dubbi, io volevo leggere Neve, cane, piede. Non avevo mai letto un libro “di montagna”, seppur il mio amore per la natura, i sentieri solitari, il silenzio e l’aria frizzante sia grande. Bene, Neve, cane, piede ha vinto e a febbraio siamo anche riusciti (eh sì, anch’io!) a mandarlo in classifica nazionale!
Come spesso mi capita, ho aperto la prima pagina del libro senza ben sapere cosa aspettarmi. A parte la quarta di copertina, non avevo voluto leggere altro, resistendo persino ai vari commenti che cominciavano ad apparire su Facebook. Completamente ignara del mondo che mi aspettava, ho così conosciuto Adelmo Farandola, il solitario, scorbutico e misantropo che vive in una baita in alta montagna, nascosta ai più. Per 126 pagine sono entrata nella sua mente, ho ascoltato i suoi monologhi e i dialoghi con animali, oggetti e persino con il ghiaccio che lo circonda.
Una lettura che mi è costata fatica e che ha richiesto non pochi giorni, certo non perché non mi sia piaciuta, anzi… ma perché presenta passaggi ostici da “mandare giù”. Particolari grotteschi sulle condizioni igieniche di Adelmo Farandola, sugli strati di sporcizia accumulati sul suo corpo e su come, terminate le provviste per l’inverno, ne stacchi alcuni pezzetti e se li mangi hanno richiesto un controllo notevole sul mio stomaco e sul senso di nausea che inevitabilmente scatenavano. Ricordo solo un’altra reazione simile nella vita, provata ormai tanti anni fa, con il film Il Cuoco, il Ladro, sua Moglie e l’Amante di Peter Greenaway. Verso la fine il Ladro mangia l’Amante, cucinato dalla Moglie: lì ho trattenuto i conati a stento e ci sono voluti due giorni perché riuscissi a ricominciare a mangiare. Ma quello era un film e la vista gioca un ruolo importante nell’immedesimazione. Morandini ci è riuscito invece solo con le parole, al punto da farmi quasi sentire l’odore acre e pungente della sporcizia di anni e anni di accumulo, senza bisogno di ulteriori ausili sensoriali. Decisamente un grande merito.
«Adelmo Farandola, lui, non si denuda da anni. Non si lava i denti da anni, perché bisogna proteggerli i denti, non indebolirli con gli spazzolini. Da anni non si pulisce dopo aver pisciato o defecato, perché non è bello curiosare troppo da quelle parti, e in ogni caso non è sano rovistare tra gli organi che servono a sgombrare la pancia. Coltiva la patina di sudore che gli cinge il costato e germina rigogliosa tra il pelame e le ascelle. […] Da anni cura i coltivi di croste tra i capelli bisunti e sempre più radi, tra la barba, tra le sopracciglia irsute».
E il fetore sembra emanare da qualunque cosa circondi Adelmo Farandola, i suoi vestiti, il suo corpo, ma anche il cane, la malga, la stalla e persino la montagna, che al momento del disgelo si riempie di carcasse di animali travolti dalle valanghe invernali e sotto al sole marciscono.
Adelmo Farandola rimane Adelmo Farandola per tutto il romanzo, quasi fosse un nome tutto attaccato e con l’avanzare delle pagine la ripetizione diventa quasi un tormentone, che a tratti mi ha ricordato il suono, anch’esso indissolubile, di «Sostiene Pereira», nell’omonimo romanzo di Antonio Tabucchi. Ma qui ci troviamo di fronte a un uomo schivo, assolutamente determinato a isolarsi dal resto dell’umanità e forse non solo. Mal sopporta persino il cane che sul fare dell’autunno si è via via intrufolato in casa e non lo lascia più, creando nell’uomo un sentimento ambivalente: da una parte un certo fastidio per non essere più solo e dall’altra una sorta di dipendenza dall’animale, al punto da sentirne la mancanza appena questi si allontana seguendo una traccia olfattiva, spinto dall’istinto.
«E basta un cane per ridurlo così. Figuriamoci cosa accadrebbe con un cristiano. Figuriamoci, per pura ipotesi, con una donna».
No, Adelmo Farandola non può permettersi di lasciarsi avvicinare da nessuno e infatti lancia sassi a chiunque entri nel suo spazio vitale, come i turisti, che talvolta nella stagione estiva si spingono fino alla malga, o come il guardiacaccia che non si capisce se voglia aiutarlo o prenderlo in castagna e rinchiuderlo – in manicomio o in galera poco importa. Una solitudine volontaria e rincorsa con tutti i mezzi, ben diversa da quella di Gina in Ruggine, che al contrario si trova in questo stato per una vera e propria azione di ostracismo da parte dei suoi concittadini, mossi da una grande cattiveria.
In queste pagine Morandini ci mostra gli aspetti più subdoli della montagna, ritratta durante i mesi più duri, quelli del gelo invernale. Una montagna inospitale, dunque, ma che il protagonista cerca proprio per questo. Anzi, non cede neppure davanti all’insistenza del guardiacaccia o ai morsi della fame che, terminate le provviste, rischiano di porre fine alla sua vita solitaria. E in questa manciata di giorni o forse settimane – la concezione del tempo sembra svanire insieme alla memoria di Adelmo Farandola – l’uomo non sembra particolarmente preoccupato: la sua mente appare sempre più confusa e sempre più intrappolata a metà tra passato e presente. A tratti riaffiorano i ricordi dell’infanzia e della giovinezza per poi intrecciarsi improvvisamente a quelli più recenti di poche settimane prima, che però fatica a ricostruire e a separare dai sogni. In tutto questo turbinio di pensieri, cose immaginate e cose ricordate, il lettore arriva inevitabilmente all’ultima riga senza nessuna verità in mano, senza nessuna certezza, in quello che forse è il finale più aperto nel quale mi sia mai capitato di imbattermi. Ovviamente niente è un caso e Morandini stesso spiega, in un lungo post-scriptum, come sia affascinato dallo sfilacciarsi delle storie vere, al punto da tentare di riprodurne l’effetto anche nelle sue storie di finzione. E anche in questo, direi proprio, è riuscito a raggiungere l’effetto desiderato.
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