“Ci sono racconti silenziosi come sassi e racconti che parlano come alberi e piccoli animali” .
Giuliano Scabia, Teatro con bosco e animali.

Claudio Morandini cita Scabia in epigrafe alla postfazione del suo romanzo “Neve, cane, piede”, postfazione che illumina retrospettivamente l’intero testo, dando al lettore le coordinate spaziotemporali di una storia che nasce da premesse di vita vissuta, in cui i luoghi non sono unicamente quelli dati dai paesaggi alpini, ma anche e soprattutto quelli della geografia dei volti, degli animi di chi li abita, quei luoghi.
Capita, a volte, di incrociare sguardi eloquenti di occhi sconosciuti, raccontano storie, prendono voce in silenzio. Morandini raccoglie l’eco di un solitario uomo di montagna, tenta “di riprodurlo […] con i poveri mezzi della letteratura, forzando schemi e strutture e schivando il galateo del plot”, perchè “le storie vere hanno questo incolmabile vantaggio sulla finzione: si sfilacciano, si impantanano, possono perdere di ritmo e di nerbo, finiscono sempre dove nessun corso di scrittura farebbe mai finire una storia d’invenzione.
“Nasce così Adelmo Farandola, personaggio costantemente in bilico sulla linea di confine che separa bizzarro e patetico. In bilico si, senza mai però cadere rovinosamente dall’una o dall’altra parte. Questo equilibrio è il riflesso della perfetta misura trovata dallo scrittore nel raccontare una storia che fa dell’essenzialità la propria ragion d’essere, in un contesto che, se da una parte rimanda ai luoghi della favola morale, per altro verso riverbera suggestioni cinematografiche, verrebbe da dire, chiaroscuri bergmaniani.
Adelmo Farandola vive la montagna più brulla e ostile, quella che, inospitale, i turisti evitano, così come Adelmo evita i turisti. La montagna è di Adelmo, crede Adelmo: roccia, neve, bestie e guardiacaccia, senza differenziazioni, tutta roba sua. Ma se la montagna conserva inalterato ogni ricordo nella fisionomia delle sue rocce, la memoria del protagonista vacilla fino a perdersi man a mano che il racconto procede. Forgiato dal tempo, come la pietraglia, scontroso e burbero, questa figura disegnata con tratti anche mitici e archetipici, “convitato di pietra che ha smarrito la strada”, “creatura che pare dotata del potere di passare dal nostro mondo a quell’altro, anzi di preferire proprio quel limite, quella zona franca fra i due mondi”, fa i conti con la propria solitudine, con la mancanza di contatto umano, che il lettore avverte ma che mai, o quasi, egli dichiara.
Sono allora gli animali, e i morti, ormai impossibilitati a nuocere, l’unica fonte di dialogo. Fitte serie di battute, spesso farsesche ma sempre calibrate, dettano un ritmo martellante al fluire della storia. Eppure i dialoghi altro non sono, a ben vedere, che la trasfigurazione di un monologo interiore. Perchè, si sa, gli uomini come lui “parleranno da soli, di sicuro, c’è bisogno di parlare a voce alta in quei posti”.
L’epilogo giunge a chiudere nel dubbio una detective story sui generis che non decolla mai, congelata tra gli affanni psichici e fisici di Adelmo, proprio come un corpo sotto una slavina. E il sospetto è che quella montagna che si riteneva di possedere, abbia finito per fagocitare un’esistenza intera, in una simbiosi perfetta tra terra e umori umani.

Se è vero che “Neve, cane, piede” riprende in parte gli stilemi della favola morale, come si è detto, è pur vero che mai Morandini ritiene di doverne suggerire una, di morale. La storia, come ogni storia degna di essere ricordata, delega al lettore la ricerca del Senso. Un indizio? “-Siamo diventati tutti matti, in paese. Uomini e bestie. Tutti. Adelmo Farandola intende: quando i cavi ronzavano più forte eravamo capaci di scagliarci gli uni contro gli altri i figli contro le madri, gli uomini contro le cose, le bestie contro gli uomini. Qualcuno ci ha lasciato le penne in quegli anni, e non per sete di vendetta o per altri scopi, ma per effetto del ronzio, che ha distillato i pensieri più neri e li ha fatti venire in superficie, li ha resi forti, definitivi. E, vorrebbe dire Adelmo Farandola, io quei cavi li sento ancora, anche se non li vedo più passare, li sento anche qui dentro, e se sono diventato matto è semplicemente per questo ronzare perenne.”

(Veronica Canalini, Il Corriere del Conero)

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