Da tre parole, Neve, cane, piede, e Claudio Morandini imbastisce una storia essenziale e scarna come le montagne in cui è ambientata.
Non sembra un romanzo italiano: non c’è retorica né compiacimento stilistico nello stile piano e aguzzo con cui Morandini tratteggia la vita di Adelmo Farandola, nome che, dopo la tragedia di Rigopiano di Farindola, parrebbe profeticamente evocativo.
Farandola, un po’ misantropo, un po’ matto, un po’ malato, un po’ semplicemente eccentrico, ha voltato le spalle al consorzio umano.
Vive tra i monti, in una delirante solitudine che si incrina soltanto quando un cane, disperso e selvaggio quanto lui, lo affianca in questa esistenza di stenti.
Scordatevi i “pelosetti” ipernutriti e idolatrati dalla deriva facebookiana: Farandola non sarà tenero neppure con il cane, che funge da contraltare comico ogni volta che la vicenda rischia di scivolare in una drammaticità senza rimedio.

Il vero protagonista è però il vallone pietroso e ostile che Farandola considera suo.
Erano generazioni” scrive Claudio Morandini “che la povertà e la limitatezza degli orizzonti rendevano ostinate. Solo nell’ultimo secolo gli uomini hanno capito che era più produttivo rinunciare a tutto quel vallone pietroso, e sono migrati verso altre zone meno franose, lasciando che la conca si riempisse di detriti e frantumi come il letto di un fiume secco. Ora la conca è abitata da un assembramento muto di idoli di pietra, da conoidi e semisfere di vaga forma umana, che poggiano sull’erba schiacciata per sempre e sembrano sorvegliare i rari passaggi” (…).

(Benedetta Colella, Bennyland)

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