Intervista a Claudio Morandini
a cura di Carla De Felice
“La solitudine di anni confonde la realtà vera delle cose e quella sognata”.
L’anno scorso, per Exorma edizioni, è uscito il romanzo Neve, cane, piede di Claudio Morandini. Una fiaba ad alta montagna, breve ma intensissima, vincitrice del prestigioso premio “Procida-Isola di Arturo – Elsa Morante” e scelta dalla comunità del Modus Legendi per diventare un caso letterario. Da qualche settimana è uscito anche Le pietre, il nuovo romanzo. Per cui, approfittando del mese dedicato ad Exorma del Book Bloggers Blabbering ho deciso di fare quattro chiacchiere con questo scrittore che apprezzo e stimo molto (…).
Oltre ai numerosi premi, Neve, cane, piede è stato il libro scelto dai lettori per il Modus legendi 2017. Ti aspettavi tanto successo?
È stata una sorpresa bellissima, e allo stesso tempo la conclusione di un lungo e paziente lavoro di diffusione, di preparazione, a cui hanno lavorato in tanti. Il libro è uscito dalla sua nicchia, comoda ma pur sempre nicchia, è finito sotto gli occhi di moltissimi lettori, e – spero di non sembrare presuntuoso – ha portato per una settimana un po’ di aria nuova nelle classifiche. Quello che non mi aspettavo, e che ha del prodigioso, è stata l’ondata emotiva che ha investito il valloncello desolato di Adelmo Farandola e lo ha reso abitato, bello, interessante. Adelmo stesso è stato adottato dai lettori – proprio lui, che faceva di tutto per tenere lontanochiunque – con passione, umano senso di pietà, desiderio di capire, rispetto per la sua sofferenza compressa e il mistero di certe sue scelte. È diventatopiù umano, più accessibile, meno repellente, grazie ai lettori che si sono riconosciuti in certi aspetti del suo essere e mi ci hanno fatto riconoscere. Anche la mia tendenza a trattare con un certo distacco,con una certa reticenza, ciò che scrivo, è andata a farsi benedire, perché trascinatodall’approccio diretto, generoso e intransigente dei lettori mi sono spinto anch’io molto vicino a Adelmo (e al cane), molto di più di quanto avessi fatto al momento della stesura del racconto. Spero comunque che Le pietre incontri lettori altrettanto curiosi, numerosi e disponibili: anche lì ci sono domande che aspettano di essere condivise, zone aperte create apposta perché siano abitate da lettori curiosi.
Il protagonista di Neve, cane, piede è Adelmo Farandola, un vecchio scontroso e smemorato che vive tra le montagne. Adelmo esiste realmente? Ti sei ispirato a qualcuno in particolare nella creazione di questo personaggio?
Non mi sono ispirato a nessuno nell’invenzione di Adelmo Farandola. Non mi è mai capitato di incontrare un vecchio eremita che mi ha preso a sassate. Il personaggio è venuto fuori così, dall’esigenza di dare vita all’abitante di un mondo isolato e fuori dalla storia, un personaggio che fosse molto distante da me, e allo stesso tempo non avesse niente a che vedere con le centinaia di vecchi solitari, tutti molto saggi, che abitano le pagine dei libri di montagna. Il bello è che di Adelmi Farandola, come ho scoperto poi confrontandomi con i lettori nel corso di tante presentazioni, è piena l’Italia – e mica solo l’Italia delle Alpi o degli Appennini: notizie di avvistamenti arrivano anche dalla Francia, dalla Svizzera. Non solo: come dicevo, Adelmo, per quanto voglia essere remoto da chiunque, è diventato oggetto di ricerca e attenzione e addirittura affetto da parte di molti, disposti evidentemente a sorvolare sui dettagli più repellenti della sua figura.
Tu abiti ad Aosta, una zona di confine tra i monti e circondata da meravigliosi paesaggi naturali. Qual è il tuo rapporto con la città in cui vivi?
Ammetto che non è un rapporto facile. In altre occasioni ho risposto a domande simili a questa dicendo che vivere lontano dai grandi centri culturali invischia in una forma di marginalità che taglia fuori, e costringe a darsi da fare il doppio, il triplo, per ottenere un po’ di visibilità. Però è anche vero che la marginalità ha i suoi vantaggi: ti permette di guardare in più direzioni, ti fa allungare lo sguardo verso realtà che altrimenti non prenderesti in considerazione, ti concede un’indipendenza di giudizio, di movimento, di sguardo che forse non avresti a Milano o Roma. Sei più solo, ma anche meno condizionato. O chissà, magari lo sto dicendo solo per consolarmi, per non sentirmi in un cul-de-sac.
Mi viene in mente che i personaggi di Le pietre, gli abitanti di Sostigno, sono imprigionati in un ambiente (la loro vallata piena di pietre iperattive) da cui non riescono, non sanno, non vogliono uscire. Sanno solo spostarsi verso l’alto (gli alpeggi di Testagno) o verso il basso, il loro movimento è puramente verticale. Si trovano bloccati in una situazione paragonabile a quella dei personaggi de L’angelo sterminatore diBuñuel, per dire, o degli abitanti de I figli dell’invasionedi Windham. Ecco, forse in questa inerzia forzata, da belve in gabbia, riconosco (ora che mi ci fai pensare) la condizione di chi si agita in un ambiente periferico, di provincia – quindi, almeno in parte, e fatte le dovute differenze, la mia.
Il paesaggio naturale che ti circonda influenza in qualche modo la tua scrittura?
Tutto mi influenza, certo, anche il paesaggio. Cioè: il paesaggio immaginario che vado esplorando e definendo libro dopo libro è il riflesso, la anamorfosi di quello in cui vivo (valli, profili di montagne visti dal basso), oltre che di quello in cui vorrei vivere e in cui mi limito a andare quando capita(colline, pianure). Di sicuro il paesaggio bloccato dalle montagne influenza una mia necessità di guardare oltre, o meglio di immaginare ciò che c’è oltre: e la visuale ingombrata da rocce e pietre mi fa sentire il bisogno di indagare quello che c’è sotto, o dentro.Certo, è un paesaggio tormentato e anche deteriorato quello che mi circonda: non ha quasi più nulla di naturale, porta segni visibili e profondi della presenza invasiva dell’uomo. Anche questo è significativo, per me: distinguere le tracce recenti, provare a immaginare come potrebbe essere ciò che vedo se l’uomo non vi fosse passato, anzi se l’uomo non esistesse proprio. È anche un paesaggio di ombre, contrasti, versanti sprofondati nell’ombra e versanti seccati dal sole, giorni brevi e crepuscoli improvvisi. E probabilmente anche questo agisce in me, al momento in cui scrivendo opero quella che un’autrice con cui negli anni ho scoperto una grande affinità, Stéphanie Hochet, ha chiamato in un suo romanzo “la distribution des lumières” – anche se sto sempre ragionando da cittadino di una piccola città incastrata tra i monti, non da montanaro, perché non lo sono e non mi sento tale.
Ad esempio, le pietre, che erano già così numerose e invadenti in Neve, cane, piede, sono un aspetto che mi ha sempre colpito negli ambienti di montagna, in quelli meno frequentati e meno bucolici. Molti valloni sono ricoperti di pietre, nude, grigie, di ogni dimensione. Nel corso dei secoli sono state pazientemente spostate e ammonticchiate dai pastori nel tentativo di recuperare spazio per il pascolo, oppure sono state utilizzate per baite e muretti, le più graziose e ovali per gli ometti che segnano i passaggi dei sentieri. Ma le frane, le valanghe, le piene ne scaricano sempre di nuove dall’alto, a tonnellate, fino a ingombrare il paesaggio, portando caos, o un altro ordine di cui non siamo in grado di capire il senso. Quelle rocce sembrano refrattarie a ogni interpretazione, a ogni comprensione, a ogni tentativo di addomesticamento. Leggerne così la presenza nelle vallate in cui mi è capitato di salire era già una premessa all’invenzione delle pietre semoventi e vendicative del romanzo.
Hai delle abitudini o dei rituali particolari quando scrivi?
Nessun rituale particolare, sorry. Vivo la scrittura, che assorbe gran parte del mio tempo, non tanto come attività ma soprattutto come pensiero, come un elemento naturale, inevitabile, che è facilitata sì da condizioni particolari (la calma, la luce giusta, la musica giusta, il giusto equilibrio tra caratteri spazi e altri aspetti tipografici) ma si può sviluppare comunque e ovunque. Di sicuro comincio a sentirmi perfettamente a mio agio quando ho messo da parte tanto materiale e su questo posso cominciare a ragionare. L’accumulo mi rassicura, mi fa capire che l’idea da cui sono partito ha retto e non si è sgonfiata strada facendo, che il romanzo ci sarà o potrà esserci. Per questo ormai scrivo direttamente al computer: la velocità della scrittura insegue meglio il flusso delle idee e il formarsi sempre volatile degli spunti, e il materiale si accumula con maggiore agio. Ci sarà poi tutto il tempo di stampare, rileggere, limare, aggiungere, levare. Scrivere è insomma sia una specie di jam session, con momenti anche di vera torrenzialità, sia un paziente e anche pignolo lavoro di rimontaggio e ricostruzione del materiale bruto raccolto nella prima fase. Immagino comunque che una mia certa predisposizione a ragionare per forme e a esercitare il controllo si manifesti anche nella prima fase – free jazz, d’accordo, ma con le basi giuste, con già un’idea di struttura, di stile.
Sarai in giro per l’Italia a presentare Pietre?
Sì, certo.Il calendario è in via di definizione, e sembra piuttosto fitto. È uno dei momenti più belli, accompagnare il libro in giro, ragionarci su assieme a chi lo ha letto, rispondere alle aspettative di chi sta per leggerlo. Bisogna accettare la sfida: il libro, se è buono, comincia a vivere, a respirare lì. A proposito de Le pietre, in particolare,sono curioso di vedere come i lettori che mi hanno scoperto grazie a Neve, cane, piede si addentreranno nel nuovo romanzo, che presenta qualche elemento di continuità ma anche robuste differenze rispetto al precedente: è una storia corale, polifonica, un dramma scanzonato, un allegro gioco tra enigmi che forse sono allegorie forse no, una miriade di personaggi buffi… Le prime presentazioni sono state molto positive: mi pare di essere riuscito, come con Neve, cane, piede, a mescolare mistero e umorismo, inquietudine, malinconia e commedia. Visto che mi sento tendenzialmente un umorista, non potrei desiderare di meglio.
Grazie mille Claudio e ci vediamo a Torino.
(Carla De Felice, Una banda di cefali)