Generalmente, della montagna, il cosiddetto “grande pubblico” ha un’idea piuttosto stereotipata, a volte legata – in chiave generalmente positiva – alla mera bellezza del paesaggio, altre volte – in chiave più negativa, almeno culturalmente – alla concezione dei monti come luogo di divertimento, di turismo sovente poco attento al valore peculiare di essi, alla cultura delle genti che li abitano. Da tempo, in antropologia culturale, si studia questo rapporto tra civiltà antropizzante e “Terre Alte”, rimarcando i fenomeni di smarrimento identitario e di spaesamento delle popolazioni di montagna dovute alla trasformazione sostanziale dei monti in una sorta di quartieri periferici cittadini votati al turismo meno culturale possibile e più consumistico – veri e propri non luoghi in quota, in pratica, che alcuni studiosi arrivano a chiamare “divertimentifici alpini”.
D’altro canto, bisogna ammettere che la letteratura di montagna, negli ultimi decenni, non ha fatto granché per, in qualche modo, salvaguardare la cultura antropologica e identitaria della montagna – in particolar modo in Italia – sfornando soprattutto titoli di natura prettamente alpinistica e biografica (sovente fin troppo autocelebrativa dei relativi autori, molto impegnati a raccontare delle loro imprese e poco dei luoghi in cui si svolgono) ovvero volumi legati a specifiche tematiche (la pratica del camminare, ad esempio). Come anche mi denotava qualche tempo fa un amico editore di libri di montagna, dunque particolarmente sensibile alla questione, da tempo mancano opere che siano meritoriamente identificabili come autentica “letteratura di montagna”, ovvero narrativa con peculiare valore letterario libera da qualsiasi riferimento tecnico-alpinistico-biografico, storie vere di montagna e di montanari o di personaggi le cui vicende siano espressamente legate – psicogeograficamente, mi verrebbe da dire – alla montagna, e nelle quali la montagna stessa faccia da protagonista fondamentale, non solo da suggestiva scenografia.
Bene: Neve, cane, piede di Claudio Morandini, libro vincitore dell’ultima edizione di Modus Legendi nonché dell’edizione 2016 del Premio Procida/Elsa Morante, è una vera opera letteraria di montagna. Lo rimarco da subito perché lo è pienamente, e in ciò rappresenta a suo modo una inopinata novità nel panorama della narrativa italiana oltre che, naturalmente, nel settore editoriale relativo. In altri paesi della cerchia alpina la produzione di letteratura di montagna nel tempo non è mai venuta meno, pur essendo ben presenti anche gli altri testi classicamente e spiccatamente alpinistici: in Francia ad esempio (che non a caso è stato il primo paese a tradurre il romanzo di Morandini), ancor più in Svizzera – paese inesorabilmente alpino-montano ben più di qualsiasi altro, d’altronde – che presenta autori estremamente interessanti come Charles-Ferdinand Ramuz, Leo Tuor, Oscar Peer, Arno Camenisch, Jacques Chessex, nomi che lo stesso Morandini cita come buoni riferimenti per la sua visione narrativa nella postfazione di Neve, cane, piede – ma mi viene in mente persino qualche passo del grande Dürrenmatt dotato di evidente profumo di “montanità”.
Personalmente, certo per una mia maggior conoscenza dell’autore e delle sue opere, ho trovato interessante porre fianco a fianco il libro di Morandini con quelli di Camenisch – meglio, mettere in relazione la montagna e i montanari di Camenisch con quelli narrati dallo scrittore valdostano. Come per certi personaggi di Camenisch, Adelmo Farandola, il protagonista di Neve, cane, piede, rappresenta la parte più rude della montagna, quella più lontana dagli stereotipi di matrice cittadina citati in principio di questo articolo: egli, unico abitante di un remoto e selvaggio vallone delle Alpi, puzza di sudore, di umidità, di escrementi bovini, di roccia, di neve e ghiaccio; il suo isolamento in alta quota, ma anche l’isolamento generato dalla sua crescente confusione mentale (“Se sono diventato matto è per colpa di quei cavi” ripete più volte nel romanzo, accennando ai cavi di un elettrodotto sotto i quali ha vissuto per molti anni) lo tengono letteralmente separato dalla cose buone della civiltà ma pure da quelle cattive, dai conformismi e dai luoghi comuni, dalle bassezze che sovente gli uomini “civili” mettono in atto per danneggiarsi l’un l’altro.
Dunque, è forse perché effettivamente matto, o forse proprio perché di animo ancora “puro” e genuino nonostante la sua urtante durezza di vita e di carattere, che Adelmo Farandola parla con un cane, che d’un tratto sbuca dal bosco e prende a seguirlo fino a diventare l’unico suo “amico”, e l’unico diversivo nella vita del vecchio misantropo. Il cane parlante rappresenta una delle maggiori peculiarità identificanti di Neve, cane, piede rispetto ai romanzi di Camenisch: un elemento di surreale distacco rispetto ad una narrazione (e a una vicenda narrata) altrimenti parecchio ruvida. D’altro canto non dovete immaginarvi il solito romantico stereotipo (anche qui, già) dell’animale che rappresenta la parte “buona” della Natura nei confronti dell’umano cattivo e assai meno assennato: il cane di Adelmo Farandola è invece assolutamente umano, nel comportamento, nei ragionamenti, nelle opinioni espresse. Certamente non di rado si dimostra più saggio di Adelmo Farandola, ma pure in questo caso è una saggezza del tutto umana, funzionale a ottenere un qualche buon fine, semmai tale in forza del fatto che la mente di Adelmo non è più troppo in grado di ragionare con altrettanta lucidità e assennatezza.
Poi, in una delle prime mattine nelle quali l’uomo e il cane riemergono dal lungo isolamento invernale e dalla loro baita sepolta per mesi sotto metri di neve, nel fronte di una delle tante slavine che si sino abbattute nei dintorni vedono sbucare un piede umano. Al quale evidentemente c’è attaccato un cadavere, ancora bloccato nella morsa del ghiaccio compattato dalla massa della slavina. Di chi sarà mai, quel corpo? Sarà di quel giovane guardiacaccia, unico a salire spesso fino alla baita di Adelmo e a dimostrargli qualche premura (ovviamente facendosi così giudicare da Farandola un maledetto ficcanaso)? Ma, soprattutto: l’avrà effettivamente ucciso la slavina, oppure l’avrà ucciso Adelmo Farandola in uno dei suoi momenti di accesa misantropia e, al contempo, di confusione mentale, al punto da non ricordarsi nulla del genere ma inevitabilmente covando il dubbio di aver veramente commesso quell’omicidio?
Claudio Morandini firma con Neve, cane, piede un’opera di notevole valenza letteraria, assolutamente contemporanea eppure ricca di riferimenti alla tradizione classica della letteratura di montagna, allo stesso tempo – ribadisco – restando ben distante dai cliché altrove fin troppo utilizzati nella stesura di testi nei quali la montagna sia l’ambito scenografico principale. Camenisch è più poetico e più portato al tratteggio umano dei personaggi delle sue storie, Morandini è più rude, più “montanaro” per così dire ma pure più profondo, più strutturato nella costruzione narrativa e tematica. Neve cane piede è senza dubbio un romanzo alquanto originale e dotato di gran valore letterario: mi piace rimarcare di nuovo come possa realmente rappresentare un punto di svolta nella produzione editoriale di montagna (che già altrove sembra trovare ulteriori spunti di rinascita, vedi l’acclamato Le otto montagne di Paolo Cognetti), e d’altro canto lo stesso Morandini pare voler continuare in questa sua intrigante missione, coll’appena pubblicato Le pietre, sua nuova opera. Leggeteli, senza alcun dubbio: troverete che pure le più dure e repulsive rocce alpine vi possono raccontare molte cose, e profonde come non potreste mai immaginarlo.

(Luca Rota, lucarota.com)

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