(…) Morandini è un abile lastricatore, un posatore-prosatore preciso e attento, e camminando sulla sua prosa, se non portiamo calzature dalla troppo spessa e rassicurante suola (le suole delle scarpe sono i Suv del piede), possiamo avvertire morbide convessità e punte acuminate.
Con Le pietre siamo ancora in montagna, nella montagna che Morandini predilige, quella ruvida e antilirica che raramente troviamo in letteratura dove da sempre prevale il modello zarathustriano del viaggio interiore, basti pensare a Otto montagne di Cognetti; Morandini volge invece lo sguardo a certe vallate svizzere, come l’Engadina di Peer, del tutto prive di bucolico ed elegiaco. In Pietre si sente comunque tutta una tradizione di montagna italiana, Buzzati in particolare, anche se stilisticamente vengono qui evocati certi apologhi calviniani e risulta difficile non pensare che i villaggi di cui si racconta (Sostigno e Testagno) non siano città invisibili ampliate ed estese fino ad assumere la planimetria del romanzo. Ma le sorprese non finiscono e lentamente, mano a mano che una sorda inquietudine prende il sopravvento e la trama si intride di perturbante, Pietre incede, diremmo rotola, verso altro: non fosse per la filigrana umoristica che percorre tutto il romanzo da principio a fine, la sensazione che ad un certo punto si fa dominante è infatti quella degli Uccelli di Hitchcock. Una misteriosa forza dà nuovo corso alla natura sconvolgendo l’ordine delle cose: lo strano fenomeno di questa vallata è che le pietre si muovono, si spostano, rotolano, sembrano avere un’anima e perfino una vita sociale. Sono sostanzialmente pacifiche ma in realtà non vanno prese troppo alla leggera perché sono piuttosto sensibili e permalose.
Ovviamente non può esservi una ragione, perché non sono smottamenti, non sono frane a rendere le pietre ballerine, e ben presto la scienza rinuncia a indagare lasciando il posto a chi mastica un po’ di poltergeist e magari di metafisica. Al lettore, metafisico o meno, importano le reazioni dei personaggi, che non mancano di sorprendere: la vallata risponde a un fenomeno così sconvolgente (le pietre invadono i prati, ingombrano la strada, colpiscono le persone) con tipica dignità montanara, un misto di selfcontrol e rassegnazione così fuori corso da parere disumana.
Abbiamo smesso di chiederci da dove vengono perché non c’è nessun mistero, basta uscire o affacciarsi alla finestra per capire che siamo circondati dalle pietre, vengono su come fungaie, il fiume, o torrente, le porta a valle dalle pietraie sotto le montagne, e lassù continuano a generarsi dal perenne sbriciolarsi delle rocce di queste Alpi da quattro soldi che si disfano appena le tocchi, si aprono come mele, se le guardi storto quelle pisciano sabbia.
Adesso che perfino le case si muovono (“lentamente, d’accordo, ma si muovono”) ed è ormai un dato di fatto che per loro la storia abbia intrapreso un nuovo corso (inutile annaspare, come la gente di città, dietro a risposte che non vengono mai), ai valligiani non resta che stabilire (questo sembra essere il compito della narrazione) come tutto ha avuto inizio, in una specie di eziologia delle pietre rotolanti (ovviamente deprivata di ogni epos) che è la linea continua della narrazione, quella che demarca il senso di marcia e proibisce il sorpasso.
I montanari sono fatti così, accolgono ogni cambiamento, grande o piccolo che sia (a causa delle pietre, le transumanze Sostigno–malghe di Testagno si sono fatte ininterrotte e senza regola), senza batter ciglio. Che sarà mai modificare il proprio stile di vita fino a tramutarsi in nomadi? Per il lettore non è lo stesso: nel libro di Morandini la precarietà erompe dal centro della terra e viene normalizzata in un modo così normale da risultare inquietante. Che mondo è quello in cui le pietre si muovono? Se c’è una cosa stabile e che dà stabilità (su questa pietra fonderò la mia chiesa, diceva quel tale) sono proprio le pietre. Che mondo è quello delle pietre che si muovono, se non un mondo in cui tutto va riscritto? Niente affatto. Nessuno riscrive nulla. I valligiani mandano giù tutto, qualcuno perfino le pietre: c’è chi con esse stringe un legame, chi le accetta di buon spirito, chi mette a repentaglio la propria autorità di taumaturgo. Anche chi decide di abbandonare la valle viene fatto rientrare nelle normali dinamiche sociali
È il dramma della montagna. La vita è dura, la gente se ne va in città, i giovani non hanno voglia di star dietro alle bestie, preferiscono una laurea.
Chi ne rimane veramente sconvolto sono i coniugi Saponara, una coppia di anziani signori, non a caso cittadini, lui ex professore, lei maestra, che aveva eletto la montagna a premio dopo una vita di sacrifici. Non l’avessero mai fatto! Per loro nulla sarà più come prima, perché la precarietà insita in ogni apparizione pietrosa riempirà la loro vita di angoscia (come il loro soggiorno, dove una dopo l’altra le pietre si accumuleranno fino a formare ometti assassini). La montagna non è incantata.
Questo fanno le pietre al cuore degli uomini. Ma non a tutti gli uomini, non agli uomini della montagna, che sono uomini diversi, probabilmente fatti un po’ di pietra. Per loro, abituati alla precarietà, alla mancanza di progetti (le case? Inutile dannarsi l’anima: staranno su fino a quando non verranno giù…), al lasciarsi passare la vita addosso come rocce di fiume, per loro quella delle pietre rotolanti non è che una delle millenarie iatture che in qualche modo passerà, anzi, rotolerà via.
(Alan Poloni, Senzaudio)