Morandini torna al romanzo dopo un paio d’anni e dopo il successo sotterraneo e caparbio di Neve, cane, piede, libro piccolo ma grande che si guadagnò la palma di segnalazione del mese anche qui su Blowup, e che ha vinto recentemente il premio ”dal basso” di Modus legendi. Si tratta di un ritorno, a tutti gli effetti. Alla montagna, per cominciare, perché lì siamo. Una montagna che, vale la pena ripeterlo, per il valdostano Morandini è tutt’altro che epica, e nemmeno, per parafrasare a metà il vecchio titolo dei cccp, ”etica”. Non è montagna d’alpinisti, di sfide eroiche dell’uomo alla conquista della natura (anzi, semmai il contrario, come vedremo). Non è la montagna ”sociale” delle comunità renitenti alla civilizzazione. E nemmeno la montagna che pare esser di moda oggi, ovvero la montagna che funge da facile alterità per l’uomo del tardo capitalismo, spossessato di sé e schiavo dei ritmi invivibili dei lavori (o non-lavori) contemporanei, e della visibilità permanente. Ecco che allora si riscopre il silenzio, l’altezza, la tranquillante fisicità delle rocce. Nulla di più falso, se poco poco ci si allontana dalle sponde del turistico. Ed è l’altro grande ritorno del libro: quella vena di surrealtà (che non è ”realtà aumentata” e nemmeno diminuita, ma realtà e basta, carezzata con un minimo sindacale di fantasia) che lì permetteva, come se niente fosse, a un cane di parlare. E nessuno, manco il burbero Adelmo aveva di che eccepire. Qui, la vitalità (ostinata e contraria, e indifferente alla sfera dell’antropico) si impossessa del regno che dovrebbe esserne sprovvisto, almeno secondo la nostra spocchiosa visione antropocentrica: quello delle pietre. In una valle che potrebbe essere qualunque, popolata da persone qualunque – che finiscono per essere comparse, quindi portatrici di caratteri (per lo più difettosi) alla fine, un po’ maschere di commedia – iniziano senza preavviso delle curiose – e poi furiose – epifanie minerali. Piccoli dettagli fuori posto, all’inizio, quasi insignificanti, incidenti della percezione. Da cui, Dick docet, possono originare le grandi distopie. Più che ”prendere vita”, le pietre semplicemente ”vivono” e, com’è facile immaginare, il fatto crea non pochi scompensi in umani sempre meno resilienti. Con un filo di ironia, ma soprattutto con il suo sguardo non giudicante, Morandini ci porta a spasso, coralmente, in questi stupori, inquietudini, rabbie e risate. Con la sua misura breve, e il passo sicuro. Forse non fulminante come il predecessore, si conferma però un frammento di letteratura solida, rocciosa, e insieme lieve. In sintonia con il marchio di collana: quisiscrivemale. Tutto un programma.

(Fabio Donalisio, Blow Up n. 229, giugno 2017)

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