CHIACCHIERANDO CON… CLAUDIO MORANDINI

a cura di Giuditta Casale

Che sorpresa il tuo nuovo romanzo! Ambientato in montagna come “Neve, cane, piede” (di cui ho parlato QUI) ma con un tono e un ritmo del tutto diverso. Dove il precedente romanzo era una favola nera, chiuso, introspettivo, il nuovo è ilare, divertente, giocoso. Permane l’elemento “magico” che si innesta con ogni naturalezza nel tessuto realistico del racconto, come nell’altro. Lì un cane parlante, qui pietre saltellanti che sembrano animarsi di vita propria, burbere scontrose irascibili e pericolose.
Qual è stato il passaggio da “Neve, cane, piede” a “Pietre”? È consapevole la volontà di tornare in montagna ma per scrivere un romanzo del tutto diverso, oppure è capitato per caso?

Per me l’elemento fantastico nasce dall’osservazione realistica, o meglio da una distorsione di questa visione: è un ingrandire ciò che è piccolo, uno spostare ciò che sta in un certo luogo, un insistere su un gesto o un pensiero, un mettere a fuoco ciò che di solito rimane sfocato o fuori campo, un rigirare le cose per vedere che cosa è nascosto sotto, un allungare o accorciare le distanze, le altezze. La montagna resta un ambiente particolarmente adatto per alimentare questa distorsione delle cose, perché le prospettive sono ingannevoli e cambiano continuamente, e camminare in montagna è essere sottoposti a un continuo trompe-l’oeil, è come trovarsi in mezzo a una gigantesca anamorfosi.
Detto questo, non avrei potuto o voluto raccontare la montagna allo stesso modo di “Neve, cane, piede”. Per questo ho reso il tono più lieve, ho represso ogni tentazione di dramma, ho calcato la mano sulla dimensione orale, conversativa, corale, facendo narrare le vicende a un “noi” che è un po’ la somma di tante voci. Tra i due libri, in mezzo a tante differenze, rimane qualche lieve aggancio, qualche allusione, qualche elemento di continuità (per esempio il personaggio del guardiacaccia, che ha un cammeo in “Le pietre”, o appunto l’elemento roccioso, minerale, che già prevaleva nel paesaggio alpino di “Neve, cane, piede”), come se i due romanzi esplorassero due valloni contigui. 

L’elemento corale è uno degli elementi più vistosi e accattivanti di “Le pietre”. Un espediente narrativo, che allude all’oralità, e fa presagire una coralità e una comunità di ascoltatori, che spesso sono chiamati in causa a raccontare o rammentare, rettificare o chiarire, e che dimostra che Claudio Morandini è uno scrittore dalla forte originalità che non solo padroneggia la lingua, non solo ha straordinarie capacità di affabulazione, ma possiede anche una maestria narrativa vasta e molteplice, tanto da passare, senza sbagliare colpo, da un registro ad un altro.
Dalla solitudine di Adelmo Farandola alla comunità chiassosa bizzosa e curiosa, ma anche solidale come diffidente e ostile a volte, di Sostigno e Terragno. 
Prima e seconda persona plurale che si rincorrono nel testo, ma che sono sempre in una reciprocità stimolante che il lettore sente e apprezza.
Con spiritosa leggerezza dietro il noi della voce narrante si scorge un vecchio cantastorie che ricorda eventi legati alla sua giovinezza, che sono ormai patrimonio della comunità tanto da poter prevedere le reazioni, o sorprendersi delle mancate reazioni, del pubblico, immaginato come solito e abituale.
Una voce, dunque, che nell’apparente semplicità, nasconde invece una struttura complessa e stratificata.
Che sfida ha rappresentato per Claudio Morandini la voce narrante di “Le pietre”?

La ricerca della voce narrante “giusta” è uno dei momenti più importanti della scrittura, secondo me. In ogni testo mi pongo daccapo il problema, che immagino simile a quello del compositore quando sceglie i timbri di una compagine strumentale invece di un’altra. Nel caso di “Le pietre”, cercavo una voce che appartenesse a tutta la comunità, una comunità impegnata a raccontarsi fino allo sfinimento le vicende passate e presenti. Hai presente la situazione della “veglia”, cioè della convivialità serale di un tempo pre-televisivo, in cui ci si riuniva a raccontare, ad ascoltare, e chi ascoltava aspettava il proprio turno per dire la sua. Si tratta di una situazione che è già stata sfruttata, in letteratura, ma che si presta a essere declinata ancora in diversi modi. A me interessava quest’idea di un continuo raccontare, in cui tante persone riunite cercano, attraverso l’intreccio di narrazioni, di trovare un senso – e invece del senso trovano altri racconti, altre storie. “Le pietre” è fatto di questo: il continuo passare da una storia all’altra, da una vicenda all’altra, nasce dal sovrapporsi di voci, da una polifonia che si traduce spesso nel “noi” ma in cui, a volte, si possono distinguere timbri diversi, personalità diverse – alcune con una propensione all’effetto plateale, gigionesco, molte dotate di un loro senso dell’umorismo.
Man mano che scrivevo la storia di Sostigno e Testagno, avevo la sensazione che altrove – chissà dove – si riunissero altre voci, che si raccontassero altre storie. Il romanzo allude soltanto a questa comunità parallela, che è quella delle pietre. Le storie che forse, diciamo così, si raccontano loro, la loro percezione delle cose, la loro versione dei fatti, cioè della precaria convivenza con la comunità di Sostignesi, non le sapremo mai, le possiamo solo intuire dalle loro reazioni alle azioni umane (che a volte non sembrano meno incoerenti e folli di quelle del mondo minerale).

 La montagna. Quella di “Le pietre” è una montagna bizzosa, magica, animistica. Del tutto diversa da quella di “Neve, cane, piede” in cui l’elemento realistico del paesaggio era predominante e faceva quasi da controcanto ad altri elementi più irrazionali della narrazione.
Mi è sembrato di notare anche un punta polemica (che per certi versi non manca neppure in “Neve, cane, piede” nella presenza dei cavi elettrici accusati di essere causa della follia di Farandola), come se quella della montagna in “Le pietre” fosse una vendetta per certi cattivi usi e cattive abitudini che l’uomo ha cominciato a usare nell’ambiente montano:

Comunque, una volta, quando i nostri vecchi erano giovani, questa valle non era così, un mondo in frantumi.

Se la natura del precedente romanzo era potente, indifferente all’uomo perché più forte e crudele dello stesso, in “Le pietre” la forza della natura è come quella capricciosa di un bambino, che pure tiene tutti in scacco. 
Volevi raccontare una montagna “frantumata” dall’uomo, o invece c’è solo il curioso episodio raccontato dall’Abbé Henry di cui parli nella nota finale all’origine dello strano comportamento delle Pietre?

Questi due romanzi, intendo “Le pietre” e “Neve, cane, piede”, non li ho intesi come occasioni di polemica, di denuncia. Certo, l’ambiente di montagna si sta radicalmente trasformando, e molte zone alpine stanno diventando simili a divertimentifici da Riviera romagnola. Si cerca di attirare il turismo di massa in montagna non puntando sulla diversità dell’ambiente alpino, quanto su ciò che si potrebbe trovare in un parco giochi. Il problema, che una volta era legato soprattutto al periodo degli sport invernali, ora tracima nell’estate, in cui si va alla ricerca dell’Evento Capitale, del record da Guinness dei Primati. Ormai anche il più scalcinato baretto di montagna ragiona in questi termini, e spara musica techno a palla, che si sente da centinaia di metri nei boschi, per far sì che i suoi clienti non si sentano in un posto “diverso” da quello in cui vivono. Immagino che a chi organizza questi eventi spettacolari non importi molto del trauma che hanno su un ambiente già segnato e in equilibrio precario. Voglio dire che se avessi voluto davvero insistere su questi aspetti avrei calcato di più la mano, e non è detto che non lo faccia in futuro: pensa, ambienti devastati, ghiacciai che scompaiono per via dei cambiamenti climatici, villaggi vacanze ostaggio di dj esaltati, concerti rock in valli raccolte con centinaia di musicisti e altrettanti amplificatori (questa è vera), villaggi alpini trasformati in non-luoghi, turisti che fanno due passi in infradito sui nevai dopo essere scesi dalla telecabina superaccessoriata (anche questo è successo)… Ne verrebbe fuori una storia visionaria, una distopia di quelle che andavano per la maggiore qualche anno fa.
Ma appunto, sarebbe tutto troppo esplicito, troppo “reale”. Preferisco allontanarmi dalla denuncia delle più recenti storture nel rapporto tra uomo e montagna (lo lascio ad altri più determinati di me, e in ogni caso non mi pare che il romanzo sia il luogo più giusto per formulare denunce) e dedicarmi a situazioni più modeste, anche meno legate alla contemporaneità, meno immediatamente leggibili come metafore del nostro attuale rapporto con la montagna e in generale la natura. In “Neve, cane, piede” la montagna ridotta a un divertimentificio caciarone è altrove (vi si trova solo qualche accenno), e i cavi dell’alta tensione sono, più che altro, un pensiero ossessivo con cui Adelmo Farandola tenta di spiegarsi il proprio declino mentale. Nelle “Pietre” la situazione sembra ancora meno collegabile all’attualità, perché vi si racconta di una comunità di villaggio cresciuta attorno alla pastorizia che si praticava un tempo: anche se il loro modo di sfruttare ambienti e animali non è sempre limpido, e talvolta appare dissennato, le comunità tradizionali non hanno (mi pare) grosse e gravi responsabilità nel degrado attuale.
Insomma, mi interessava raccontare altro, con “Le pietre”. Il caso di poltergeist che avevo scovato in quelle pagine dell’Abbé Henry è stato per me meno di una reminiscenza, però mi ha aiutato a trovare la chiave per entrare nella storia collettiva: come se il poltergeist, partito da una singola casa, avesse finito per coinvolgere un’intera vallata. E da qui a chiedersi che cosa stanno “pensando” le pietre il passo è breve. Però stiamo attenti a non scivolare nell’antropomorfismo, nella pareidolia. No, le pietre non ragionano come noi, con il loro comportamento non si stanno vendicando sui Sostignesi per quanto la montagna sta subendo dall’uomo. Non mi pare che sia così. Le loro motivazioni restano in gran parte misteriose. E loro rimangono pietre.

Le pietre sono tra i personaggi più misteriosi e originali del romanzo, ma grande attenzione merita anche la coppia di sventurati dalla cui casa parte il prodigio: Agnese ed Ettore.
Dei “diversi” nella comunità, perché giungono da fuori, perché sono colti, perché non si sono mai del tutto adeguati alle abitudini della comunità: non allevano animali, non coltivano l’orto, e soprattutto nella loro casa hanno un soggiorno, che crea nella gente di Sostigno uno choc culturale:

Quando, per fare conoscenza con la gente di Sostigno, i Saponara invitarono i vicini a un giro della casa e li introdussero nelle varie stanze, provocarono una specie di choc (come dite voialtri? Choc culturale? Ecco, quello).
– Questa è la sala da pranzo con angolo cottura – bisbigliava Agnese, che si sentiva timida. le donne tacevano, guardavano il forno, i fornelli, il frigofero, indecise se sentirsi invidiose oppure offese.
– Questo è il soggiorno – declamava Ettore. Il famoso soggiorno, sì.
Qualcuno del villaggio chiedeva sottovoce a un altro:
– Cos’è un soggiorno?
– Una specie di magazzino – rispondeva questi. – Non vedi quanto spazio?
I più vecchi, che trovavano ancora comodi gli stanzoni unici, con il camino da una parte e i lettoni a lato, al piano di sotto la stalla e a quello di sopra il fieno, non capivano.
– E le bestie? – si chiedevano – e il fieno?
– Non hanno bestie, non raccolgono il fieno.
– E che ci fanno qui, insomma?
– Vediamo, lei fa la maestra, lui invece è già in pensione, e vuole rilassarsi.
– E viene a rilassarsi qui?

All’inizio sembra che i Saponara si integrino nella comunità, facendo diventare la loro diversità un punto di forza: accolgono di pomeriggio i ragazzi nella loro casa per dare ripetizioni private. Un contributo valido e positivo, che dà senso e realtà al loro essersi stabiliti in una comunità montana, che vive in un ritmo proprio e isolato, ma che deve conservare dei rapporti con il mondo. Poi qualcosa comincia a serpeggiare contro di loro a causa delle pietre, fino all’epilogo che, se non è tragico, nel rispetto del tono ironico e leggero che spira in tutto il romanzo, è certamente un epilogo di rottura e di negazione di una possibile convivenza con le pietre e anche, in subordine, con gli abitanti di Sostigno.
Sbaglio? Ma in effetti, cosa ci fanno a Sostigno Agnese ed Ettore?

Ah, non lo so! Forse i Saponara cercavano solo un po’ di serenità, sedotti da una idea bucolica della montagna, da suggestioni da cartolina, ma senza rinunciare ai loro piccoli agi da cittadini, alle sciccherie della vita borghese (il soggiorno, appunto). Tenersi impegnati con le lezioni li aiuta a sentirsi ancora utili, forse gratificherà loro più che gli altri. Certo, se le prime pietre non si fossero materializzate in casa loro non si sarebbero nemmeno accorti delle incrinature nella convivenza con gli abitanti di Sostigno, delle piccole incomprensioni, si sarebbero adagiati in una benevola accettazione. Le pietre scatenano reazioni, riportano in superficie ricordi rimossi, sembrano per un attimo guastare l’armonia che c’è tra i due anziani coniugi. Ma i Saponara, tutto sommato, e tra mille pianti e passi falsi, reggono alle provocazioni delle pietre e dei Sostignesi, e la loro piccola ribellione personale alla fine sembra essere più efficace della soluzione adottata dai compaesani: partono per il mare, i Saponara, e al diavolo tutto il resto, mentre a Sostigno si continua ostinatamente a transumare su e giù dagli alpeggi, come bestie in gabbia.
Comunque, mi sembrava importante che tutto questo non diventasse “dramma”, o peggio, “melodramma”. La diversità dei Saponara rispetto a Sostigno è accennata, indiziaria, non sfocia mai nel conflitto aperto; più che scene madri, nel romanzo ci troverai scenette da commedia, se non gag. Contro di loro in paese non ci si esprime mai con aggressività, semmai si brontola, come si fa del resto con tutti (i Saponara, con la loro natura di cittadini, offrono qualche argomento in più, tutto qui). Vi è, in Sostigno ma direi in generale nelle comunità di montagna, o almeno vi era, un burbero pudore nell’esprimere le proprie emozioni e i propri pensieri che sembra spesso ispirato a una sorta di understatement. Le pietre non conoscono questo pudore, anzi, sono piuttosto esplicite, a modo loro: semplicemente, vi è un grosso problema di incomunicabilità, che impedisce a uomini e minerali di decifrarsi.
Mi sono accorto che nel raccontare le piccole vicende dei Saponara stavo esplorando il tema dell’incongruità. I due sono continuamente “fuori posto”, e il loro disagio è un po’ anche il mio, quando mi muovo in territori che non mi appartengono. Diciamolo più esplicitamente: nel mondo della montagna (nella montagna della letteratura, ma anche in quella vera) sono entrato con una goffaggine paragonabile a quella dei Saponara. Lo osservo, lo studio, cerco di farmelo piacere, ma qualcosa mi sfugge sempre, le diffidenze (mie prima di tutto) non scompaiono, le distanze non si riducono. La montagna è un pianeta sconosciuto, dico a volte esagerando un po’, e giusto per far sentire la differenza rispetto ad altri narratori che cercano invece una piena, appassionata armonia con l’ambiente alpino. E quindi, dal mio punto di vista, questo “sentirsi fuori posto”, questa inguaribile “insoddisfazione” è una condizione ideale per raccontare, per osservare, per non lasciarsi cogliere dai sentimentalismi, per esercitare uno sguardo vigile e umoristico, cioè critico, che smonta e rivolta un po’ tutto.

Da lettrice, Claudio, ti devo confermare che come per la voce narrante di “Le pietre” anche tu hai appreso ben benino la lezione della maestra Agnese: che però non sveliamo, perché le ultime pagine di un romanzo sono sacre e il lettore deve scoprirle da sé.
Nell’insegnamento della maestra Agnese, come anche in una delle più lunghe riflessioni digressive della voce narrante a guardare le montagne “con calma”, mi sembra che nel romanzo ci sia un invito a non avere fretta. Difatti la conseguenza più brutale che sconvolge la vita degli abitanti di Sostigno non è solo la convivenza turbolenta con le pietre, ma anche il doversi trasferire da Sostigno a Testagno non più una volta l’anno come un tempo, ma più volte, perché le stagioni sono diventate troppe:

per questo adesso siamo costretti a raccogliere in fretta la nostra roba, a tirare fuori le bestie dalle stalle e metterci in moto per le alture di Testagno, o le bassure di Sostigno, a seconda di dove ci troviamo, così, di punto in bianco, come pazzi.

Il tempo, inoltre, sia in “Neve, cane, piede” che in “Le pietre” è un altro degli elementi più originali della tua narrazione. In questo nuovo romanzo c’è un tempo sospeso e remoto, in cui i personaggi sembrano galleggiare.
La montagna spinge ad utilizzare diverse categorie temporali, come se quelle della pianura e tantomeno quelle della città non potessero essere valide in alta quota? 

In effetti la gestione del tempo (dei piani temporali della narrazione, ma anche dei tempi, intesi come velocità) è per me, assieme alla scelta della voce narrante, uno dei problemi più eccitanti da risolvere al momento in cui prendo a raccontare una storia. Hai ragione, la “calma” è una dote che mi piace praticare, e che di sicuro è un po’ in controtendenza, in questi tempi di narrativa iper-cinetica, in rincorsa affannata dietro ai ritmi frenetici del montaggio cinematografico o dei serial di marca anglosassone. Io, per rimanere alla televisione, rimpiango i tempi degli sceneggiati televisivi di quando ero ragazzino, quelle puntate in cui gli attori – tutti ottimi attori di teatro – si aggiravano pensosi e straniti in interminabili scene di interni. Era proprio teatro, più che fiction televisiva. E invidio al teatro tout-court la sua aspirazione a una temporalità naturale.
Ma sto divagando, scusami. Si diceva del tempo: in “Neve, cane, piede” il tempo si riduce a un presente in cui, per effetto della progressiva demenza del protagonista, non vi è quasi più memoria del passato, se non flash scollegati, e non vi è alcuna tensione verso il futuro. E la velocità del racconto si adatta ai cicli stagionali, per cui l’inverno, fase statica, chiusa, inerte, letargica, è inevitabilmente “lento”, o, per usare termini musicali, finisce per assomigliare a un “adagio”. Perciò sì, percorrere la montagna costringe a ripensare il tempo. Lo misuri attraverso i tuoi passi, la cadenza del tuo respiro, il ritmo dei versi degli uccelli, il pompare del sangue nelle tempie o sul collo. Nelle “Pietre” gioco con una maggiore varietà temporale, ora decelerando (nelle fasi di attesa, notturne, nei momenti legati alla routine, in quelli più riflessivi o contemplativi) ora accelerando improvvisamente, come in una comica del cinema muto (e qui le pietre del titolo hanno un ruolo determinante, come in una celebre scena dal film di Buster Keaton “Seven Chances”, del 1925, quella della fuga da macigni rotolanti sempre più numerosi e giganteschi, la quale come fonte d’ispirazione ha contato per me molto più dell’Abbé Henry). Accelerazione-decelerazione, movimento-stasi: il dinamismo di “Le pietre” sta in questo, e mi rendo conto di ragionare ancora una volta in termini musicali, o quasi (sono consapevole che ogni tentativo di trapiantare elementi musicali nella letteratura sia sempre approssimativo, almeno per quel che mi riguarda).
In “A gran giornate”, che precede “Neve”, si assiste a un’altra soluzione, a una specie di tempo “spezzato”, “frantumato”: le vicende procedono per frammenti più o meno grandi, riordinati da un filologo immaginario secondo diversi criteri, e in mezzo a tutto questo spiccano i vuoti di ciò che non è raccontato, il “fuori-tempo” andato perduto.
C’è poi il tempo storico. In “Le pietre” i riferimenti storici sono forse ancora più labili e ambigui che in “Neve, cane, piede”. Sembra che le vicende accadano più o meno ai giorni nostri, ma mancano quei marcatori temporali che ci permettono di esserne sicuri. Non vi sono allusioni a tecnologie avanzate, nulla di digitale. Io però non so se questa atemporalità sia legata alla montagna o non nasca piuttosto da una mia esigenza, o da una mia idiosincrasia. 

(Giuditta Casale, Giuditta Legge)

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