Memoria e solitudine

Neve, cane, piede. Ovvero il luogo (il movente?), il protagonista (forse), il fatto (il corpo del reato). Il titolo asindetico, dal forte richiamo surrealista, pone subito il lettore di fronte ad un falso giallo e ad un’opera che è un mix di generi, ma non nel senso che li raccoglie un po’ tutti, ma per il fatto che è in grado di travalicare il limes tra i generi letterari. Romanzo breve o racconto lungo ( qui è più che mai difficile la catalogazione) dal sapore agrodolce di fiaba ma priva di una morale chiara e ben definita, cioè di una pretesa pedagogica; innervato ( o innevato, è il caso di dire) da una trama essenziale, scarna, illuminata da pochissimi elementi con l’utilizzo di un linguaggio tagliente come il gelo delle montagne che ne forniscono l’ambientazione.

Opera del silenzio e della solitudine umana immersa in una natura ostile e selvaggia ( “matrigna” di leopardiana memoria) che racconta della dura vita d’altura, esistenza quanto mai lontana dagli stereotipi bucolici del turismo vacanziero ( e cafone ) di massa. Storia di un anziano uomo solitario che vive in una fatiscente baita isolata lontano dal contatto con i propri simili tranne qualche rara discesa a fondovalle nel più vicino villaggio per procurarsi provviste e viveri e tranne sporadici incontri con un invadente guardacaccia. Personaggio borderline che, da quando durante la Resistenza, ha conosciuto quei luoghi, ha deciso di restare a vivere lassù e che man mano è sempre più andato “inselvatichendosi”, scegliendo di praticare un rapporto di simbiosi con l’ambiente circostante. Suo unico compagno, incontrato per caso ad un certo punto della storia, un cane parlante ( che ricorda molto la ” voce della coscienza” come nel grillo di “Pinocchio” ma senza il risvolto etico) che si adatterà velocemente e fedelmente al suo bizzarro padrone, alla sua vita asociale e ripiegata in sé stessa, alle sue allucinazioni e alle sue smemoratezze. Un giorno poi, oltre all’arrivo del cane parlante, dalla neve affiorerà un piede umano, parte di un cadavere anch’esso parlante, di cui il lettore non verrà mai a conoscenza dell’identità ( e su questo Morandini gioca abilmente). Che sia il corpo del guardacaccia ( e se sì, ucciso dal protagonista?), di un soldato della Grande Guerra o della Resistenza, di un bracconiere? Il cadavere stesso, infatti, non conserva più memoria della sua vita e tantomeno delle circostanze della sua morte; come Adelmo Farandola ( il montanaro solitario) e il cane è un personaggio al limite tra la dimensione del reale e quella del mito, della favola. Personaggi di cui si è persa la memoria, personaggi che hanno perso la memoria.

La loro smemoratezza è metafora calzante della perdita di identità e dello smarrimento di una narrazione ( costituita da luoghi, genti, dal pulsare della vita vissuta) sull’alta montagna italiana ( e non solo) sempre più spopolata e vittima predestinata dell’oblìo. Narrazione che, come spiega Morandini nel capitolo conclusivo “Storia di questa storia”, l’autore tenta di ri- costruire, ri-tessere a partire dai fili dei racconti confusi e contraddittori uditi nel bar dove aveva chiesto informazioni sullo scontroso abitante incontrato durante una passeggiata su sentieri di montagna. Presenza umana e, nello stesso tempo, divinità dei boschi e dei monti, il Farandola, spartano e rude custode degli antichi riti, che si prodiga con ogni mezzo di impedire la profanazione dell’habitat selvaggio e incontaminato come se fosse stato investito di una sacra missione che vede in ogni intervento esterno (il guardacaccia, il fratello giunto in quota con l’elicottero per cercarlo e riportarlo a vivere nella “civiltà” a fondovalle) una seria minaccia di estinzione. E qui forse Morandini sconfina ( dopo il thriller, il giallo, la fiaba, la povest’ russa, ecc.) anche nella critica ambientale sulla montagna violentata dagli impianti di risalita e dalle speculazioni turistiche. Perché la montagna , ci vuole egli dire, deve rimanere così com’è (nella sua sacralità); la sua durezza, i suoi percorsi impervi, la sua natura deve essere rispettata e salvaguardata. E Adelmo, così come la montagna di cui è metaforica incarnazione, ha tutto il diritto ad essere lasciato solo e in pace.

(Il prisma di Newton)

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