Claudio Morandini – (quasi) una recensione, anzi due

Ho conosciuto Claudio Morandini per caso, grazie a un algoritmo, uno di quei consigli a fondo pagina che ti informano che, a seguito di un acquisto o di una lettura, ‘potrebbe piacerti anche’ -per la cronaca, di solito non mi piacciono.
Dico questo perché non riesco a ricordare cosa avessi letto, quel giorno, da innescare un collegamento con lui, perché Claudio Morandini non somiglia a niente che avessi già letto in precedenza.

I suoi ultimi due romanzi, Neve, cane, piede e Le Pietre (…) mi sono sembrati facce traslate di uno stesso cubo di Rubik: hanno una propria identità ma, allo stesso tempo, danno vita e alimentano una realtà composita.
Adelmo Farandola, protagonista di Neve, cane, piede, rifugge qualsiasi tipologia di consorzio umano, vive in un vallone isolato delle Alpi, tutto pietre e neve, poco attraente per i turisti, inospitale. Il suo isolamento è volontario, un eremitaggio che non ha niente di spirituale; la sua vita è ridotta alla sopravvivenza: far provviste per fronteggiare i rigori dell’inverno, l’isolamento nella neve nell’attesa del disgelo. Questo silenzio stagnante è attraversato solo dai suoi pensieri, perlopiù ricordi di infanzia o di gioventù, Adelmo Farandola non è più abituato alla parola, alla comunicazione con l’altro da sé.
Ma chi è quest’uomo? Cosa gli è accaduto? Perché vive così?
Siamo lì che maneggiamo timidamente il cubo di Rubik, indecisi sulla prima mossa da compiere, ed ecco che appare un cane che segue Adelmo Farandola fino a casa, innescando la crepa che porterà al primo dialogo vero di questa narrazione, tra uomo e cane, nel modo meno metaforico possibile.
Il nostro cubo di Rubik inizia a raggrumarsi in colori, intravediamo una strategia che porti all’interezza, non sappiamo ancora di sbagliarci. Adelmo Farandola è un uomo sgradevole, a tratti incomprensibile, non cerca redenzione. Il dialogo col cane ci dona attimi di leggerezza, a volte ci sembra di intravedere, sotto la scorza dura della solitudine, un residuo d’umanità, forse. Ma questa nuova presenza, questa inaspettata relazione, fa emergere lo smarrimento dell’uomo: è confuso, perde il confine sottile tra l’accaduto e ciò che dovrà accadere.
Forse ci piace pensare che ci sia un senso, alla fine, che la solitudine, come la bruttezza, siano sintomi di qualcosa di lineare, di spiegabile, che tutto sia traducibile nella parola. Claudio Morandini racconta questa storia nera, di neve e di silenzio, di macabri ritrovamenti, di smarrimento e solitudine, una storia che ha, in sottofondo, un’eco lontana di cavi dell’alta tensione; ci piacerebbe che queste montagne fossero palcoscenico di rinascita, di buoni sentimenti, vorremmo disperatamente che Adelmo Farandola fosse un uomo che ha perso la ragione, solo per un momento, che venisse soccorso, aiutato, che ci fosse bellezza anche per lui, e calore. Vorremmo che quel cane fosse in realtà la sua coscienza, che quella neve non fosse una tomba.
Sarà che non ho mai risolto un cubo di Rubik in vita mia, ma ho sperato fino all’ultimo che non ci fosse un perché, un andare a finire, speravo di potermi assumere, come lettrice, il rischio del non sapere, per una volta, e di starci scomoda. Di ricordare lo sguardo di pietra che quell’uomo ci ha lanciato, di pensarlo ancora ogni tanto, e non sapere.

Anche Le pietre è ambientato in montagna, su queste Alpi minori, Alpi da quattro soldi, che se le guardi storto pisciano sabbia. Sostigno (località di villeggiatura a valle) e Terragno (alpeggio in quota) diventano scenario di un evento anomalo: a sconvolgere una vita grama, dura, immersa nel silenzio della quotidianità, ciclica, le pietre prendono vita e, in quello che viene definito cataclisma al rallentatore, entrano nelle case (a partire dal salotto di una coppia di insegnanti di città, i Saponara), negli orti, nelle zuppe, negli incubi e nella mente dei montanari, sconvolgendone le abitudini, facendo crollare le case, uccidendo le bestie, inducendoli a transumare continuamente tra vetta e valle. Questo stillicidio minerale ci viene raccontato da una voce narrante, uno tra i montanari, all’epoca dei fatti ancora un bambino, che lega la pluralità di punti di vista del villaggio in un alternarsi di ieri e di oggi, ciò che è stato e ciò che è ora; le pietre sono caratterizzate come fossero anch’esse personaggi, volubili, vendicative, attirano un viavai di mistici, stregoni, di geologi e studiosi, di giornalisti, completamente inutili. Ci si interroga su cosa stia a significare quest’infestazione di pietre, cosa sia questa manifestazione del male, cosa si debba espiare.
Rispetto a Neve, cane, piede, in cui il silenzio e l’indurimento della lingua, il suo prosciugarsi, emergevano già dal titolo, in Le pietre c’è una coralità di voci, un punto di vista polifonico, che veicola l’utilizzo di un’ironia sottile propria della penna di Claudio Morandini, efficace perché misurata, mai eccessiva, convive con il pathos creato dall’inspiegabilità degli accadimenti. La voce narrante, man mano che ci si addentra nelle vicende litiche, si cristallizza, assume quasi una dimensione atavica, una memoria minerale, come se provenisse direttamente da quelle stesse montagne.
L’arrivo delle pietre, narrativamente, come accadeva con il cane di Neve, cane, piede, fa emergere una criticità dell’uomo contemporaneo: cambiano gli uomini, i rapporti nella comunità, affilano una crisi generazionale, sociale. Forse. Ma forse in fondo la vita è così, è dura, è grama, questi luoghi sono sempre stati inospitali, e chi ci si è insediato, prima di noi, ha dovuto faticare per essere accettato, per essere parte di queste valli pietrose, la vita è sempre stata dura, ora lo è un po’ di più. Forse è presuntuoso cercare di capirlo, per noi sul livello del mare.
Inspiegabilmente, andandocene, le nostre scarpe sono un po’ più pesanti.

(Cecilia Ercoli, Collettivo Paolo Uccello)

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