Scrivere è un sollevare le pietre per vederci sotto – Intervista a Claudio Morandini


Nella tua carriera letteraria hai pubblicato con case editrici sempre diverse, per poi fermarti, nel 2015, con Exòrma. Quali caratteristiche cerchi in una casa editrice? Pensi di aver trovato un approdo?

Il catalogo di Exòrma si è rivelato un luogo particolarmente adatto per due romanzi di confine e di sconfinamento come Neve, cane, piede e Le pietre. L’editore (e, prima di lui, il mio agente) ha creduto da subito nei due romanzi, ha dato loro visibilità facendo arrivare i due titoli nelle librerie indipendenti e coinvolgendomi in una fitta serie di incontri, presentazioni e eventi che sono stati per me momenti molto importanti e proficui (…).
Gli editori che mi hanno voluto sanno che i miei scritti non sono facili da collocare; sanno che percorro territori poco frequentati, lontani dalle mode (anche la montagna lo era, quando ho scritto Neve, cane, piede), che mi ostino a dare priorità ad aspetti negletti della scrittura, non inseguo i trend di oggi, anzi, nemmeno so bene quali siano. Il fatto che mi vogliano nonostante ciò, anzi proprio per ciò, è molto confortante.

Recentemente Edicola Ediciones, casa editrice indipendente italo-cilena, ha tradotto e pubblicato Neve, cane, piede in spagnolo, per il mercato editoriale cileno. Neve, cane, piede è un romanzo fortemente radicato nell’ambiente valdostano, descrive uno stato di intenzionale isolamento e la perdita dell’abitudine all’uso della parola. Che effetto ti ha fatto vederlo aprirsi verso altri orizzonti e parlare un’altra lingua?

Vi dirò, sapere che Adelmo Farandola, dopo essere stato avvistato un po’ ovunque sulle Alpi e gli Appennini,  si trova a suo agio sia sui massicci della Francia, sia sulle Ande, sia – tra poco – tra i monti della Turchia mi rincuora: perché quel personaggio, con tutto ciò che lo circonda, non voleva essere valdostano. Ho mescolato le carte apposta perché non fosse identificabile come locale, inventando ambienti non individuabili, giocando con la toponomastica e il lessico. Ho un rapporto piuttosto complicato con il luogo in cui abito, e quando scrivo me ne tengo ben lontano – tant’è che prima di Neve ho raccontato quasi sempre di pianure. La regione in cui vivo non è un luogo d’elezione, come è invece per altri scrittori: ci sono nato, mannaggia, le montagne me le sento addosso da quando ho aperto gli occhi, e se non bastasse me le sogno spesso, e tutto qui attorno mi sta stretto.
Nell’edizione francese, a cura di Laura Brignon, ho sentito Adelmo e il cane esprimersi con inaspettata eleganza: i loro dialoghi sono diventati scene da commedia con echi molieriani.

Grazie all’iniziativa Modus Legendi, Neve, cane, piede ha raggiunto un’ottima posizione nella classifica dei libri più venduti. Questo è un riconoscimento diretto da parte dei lettori, che ha coinvolto anche librai, giornalisti, editori, in quella che hanno definito una ‘rivoluzione gentile’. Quanto pensi possa essere utile, a lungo termine, questo tipo di operazione per uno scrittore, per il futuro di un’opera e per il panorama dell’editoria indipendente?

Di sicuro Modus Legendi ha messo in moto attorno al mio libro un mondo solidale di persone che si occupano di libri e li amano. Questo dinamismo ha dato un’importante visibilità al romanzo e ha reso giustizia agli sforzi di chi lavora nell’editoria indipendente. L’aspetto più significativo e anche commovente alla base dell’iniziativa, secondo me, sta nella rivendicazione del ruolo attivo, esigente, dei lettori nella valutazione della qualità dell’opera letteraria, al di là di ogni strategia di marketing. La speranza è che questa nuova sensibilità attecchisca anche al di fuori della cerchia pur ampia di appassionati e addetti ai lavori e dia origine a un comportamento costante e comune. Il discorso sul coraggio della qualità riguarda ovviamente tutti, sia l’editoria indipendente sia i grandi editori.

Cosa ti forma? Cosa ti piace leggere?

Mi piace leggere romanzi che non si adagino in forme convenzionali, ma ne siano inventori. Romanzi che non siano schiavi del plot, autori non indifferenti alle ragioni dello stile, racconti che non si inchinino alle convenzioni di scuola statunitense. Opere in cui l’invenzione linguistica mi tenga in sospeso tanto quanto la storia. Opere che sperimentino forme nuove, che si muovano in libertà al di là dei limiti dei generi. Opere che i librai o i bibliotecari non sappiano su quale scaffale riporre. A questo punto cito sempre Sterne, Petronio, Rabelais, Palazzeschi, e molti altri – il mio personale canone è affollato e variegato.
Lasciatemi aggiungere che mi sento formato nel mio lavoro di scrittura dalla musica tanto quanto dalla lettura. L’ascolto delle composizioni, con qualche preferenza per quelle della grande stagione sperimentale del Novecento, si risolve per me nella decifrazione di forme, di strutture, e tutto questo ha – ne sono consapevole – un influsso su di me al momento della costruzione del romanzo.

Hai proposto romanzi molto diversi tra loro, con respiri differenti, alcuni scuri, quasi gotici, altri giocati sul filo di un’ironia tagliente; hai un uso molto misurato del surreale e del grottesco. La tua è una scrittura versatile abbastanza da permettere queste variazioni senza perdere la matrice identitaria che ti contraddistingue. Cosa ti ispira? Cosa ti piace indagare? Come si struttura un lavoro di scrittura come il tuo, che integra il surreale ad una pedissequa quotidianità, senza che una abbia il sopravvento sull’altra?

Uno degli aspetti che mi intrigano di più della scrittura è questo: chi sta raccontando? Di chi è la voce, di chi lo sguardo? Quanto sa, e soprattutto quanto non sa e non capisce di ciò che si accinge a raccontare? Allo stesso tempo, oltre a rimuginare su questo aspetto, coltivo l’ambizione di cercare una mia voce, che sia riconoscibile ma non diventi maniera.
Scrivere rimane, secondo me, un’operazione complessa di selezione: questo va detto, questo no; questo va suggerito; questo va introdotto, ma subito abbandonato; su questo, invece, si può insistere fino allo sfinimento. Lo sguardo di chi racconta si posa di qua e di là, sempre in movimento: è uno sguardo inquieto, talvolta ostinato, talvolta distratto. Ecco, scrivere è un continuo passare da messe a fuoco denudanti e smascheranti a sfocature improvvise. E a essere messi a fuoco sono spesso i dettagli apparentemente insignificanti, mentre gli elementi più evidenti rimangono in secondo piano, finiscono fuori inquadratura, sono impietosamente tagliati. È quello che ho definito un sollevare le pietre per vederci sotto. Il surreale (mi verrebbe da dire “sub-reale”) a questo punto spunta da sé, naturalmente, senza che ci sia bisogno di evocarlo o di inserirlo a forza.
Un romanzo dopo l’altro, mi pare di esplorare territori diversi ma contigui, appartenenti a una medesima geografia immaginaria; c’è continuità, e allo stesso tempo novità. Anche le vicende de Le pietre sembrano collocarsi in una valle non lontana da quella in cui si era rintanato Adelmo Farandola.

Nei tuoi romanzi la surrealtà viene trattata come ciò che surreale non è: una donna di lattice acquisisce spazi di opprimente autonomia, i cani parlano, così come i cadaveri, le pietre vivono di vita propria e tutti mostrano degli umori che fanno da controcanto alle umane vicende. La tua scrittura, tuttavia, non si pone mai in un’ottica interrogativa riguardo questi eventi: si possono fare delle ipotesi, vengono date delle opzioni, ma non c’è mai un aggancio al fantastico, né spunto per allegorie edificanti. Le sfumature di grottesco e sottile crudeltà, quasi fiabesca, che appartengono ad alcune tue narrazioni non esplodono mai, restano strutture portanti di un certo pathos. Come si mantiene un equilibrio tale da reggere questo impianto narrativo?

Vi ringrazio di cuore, avete definito come meglio non si potrebbe quello che spero di ottenere. Non mi viene da aggiungere altro, se non che il punto di partenza è sempre, per me, una sorta di stupore. Lo stupore di fronte alle cose, ai misteri rappresentati da ciò che le altre persone sono nel loro profondo, alla vita segreta che sta sotto le pietre, dietro i mobili, in cantina o in soffitta, al manifestarsi prepotente di tutto ciò che cerchiamo di tenere nascosto perché sconveniente, brutto, spaventoso, imbarazzante. Stupore, ma anche rispetto per l’enigmatica complessità che connota ogni essere, animato o meno. Appartengo alla categoria dei narratori che lasciano aperte tante domande, ma non pretendono che il lettore trovi tutte le risposte: a me basta che chi mi legge assapori con me il gusto di queste domande senza risposta, o che provi la vertigine nello scoprire che le risposte possibili sono tante; che senta il brivido (non per forza spiacevole) della propria e altrui inadeguatezza.
Che l’uomo (cioè i miei personaggi) di fronte a questa esuberanza dell’elemento surreale si senta a disagio e provi una profonda manchevolezza, ma allo stesso tempo non rinunci ad arrabattarsi e a darsi da fare, è fonte di numerosi spunti umoristici, a cui non saprei rinunciare. Gli ostinati e comici personaggetti de Le pietre nascono proprio da questo.

La montagna di cui scrivi non è palcoscenico di crescita e riconciliazione, anzi, è dura e grama, fatta di pietre, inospitale; l’uomo che vi si insedia deve faticare per farne parte ed è una fatica che non si esaurisce mai, perché quel luogo non lo aveva previsto. Questo scenario non prevede redenzione, qui restano uomini che non trovano riscatto né lo cercano. Ci sembra di cogliere una cifra di affetto e rispetto per quei luoghi e chi li abita. Cosa ti lega alla montagna? Cosa ti ha fatto assumere questo punto di vista narrativo?

In realtà, non nutro sentimenti particolari nei confronti della montagna. Pur essendo nato tra le Alpi, non mi sento un montanaro (non lo sono proprio: mi trovo piuttosto in una condizione di cittadino e di provinciale) e non mi passa proprio per la testa di andare a vivere come un montanaro per comprendere meglio, dall’interno, la dura vita dell’abitante dei villaggi alpini. Per me, la condizione migliore per narrare la montagna è che rimanga un luogo non familiare, estraneo. Scriverne significa provare a decifrarlo, a esplorarlo. Non mi interessa descrivere la vita di montagna per com’è, lascio volentieri questa incombenza a qualcun altro: diciamo invece che in questi anni la montagna si sta rivelando l’ambiente più adatto a raccontare una certa visione delle cose, l’insofferenza di chi vorrebbe allungare lo sguardo oltre ma non può, la continua meraviglia di chi vive in un ambiente che cambia, si deforma, cambia prospettive e proporzioni ogni volta che ci si muove dentro, e che rivela ancora qualche traccia di come potrebbe essere il mondo senza l’uomo – un mondo minerale, non ostile, ma indipendente, anche dotato di una sua vitalità, come ne Le pietre. È una montagna pensata, sognata, ricordata, immaginata, fatta per lo più di carta e parole, insomma mia.
Non è una montagna conciliante, è vero. E sembra caratterizzata da tutto ciò che possa risultare sgradevole, opprimente, respingente. Ma qui ha agito un impulso: quello di tenermi lontano dai toni idilliaci con cui è stata infiocchettata troppo spesso la vita dei borghi alpini.

La nota conclusiva, nei tuoi romanzi, completa un finale compiuto. Non è scontato che ci sia ma è bello trovarla: è integrante, un regalo al lettore. A quale esigenza risponde?

Chissà, da una parte è un’esigenza mia, anche piuttosto ingenua, di non abbandonare subito la storia, di rimanerci ancora un poco. Dall’altra è un gioco con le aspettative del lettore: perché quelle pagine apparentemente espositive in realtà (qui mi riferisco a Neve, cane, piede, ma anche, che so, all’apparato di note a piè di pagina di Rapsodia su un solo tema) si cela una prosecuzione dell’invenzione narrativa, in cui qualcosa è pur vero, qualcos’altro invece è proprio falso.
Infine – e anche questa è un’esigenza che sento sempre – quelle pagine sono un modo per virgolettare, per ricomporsi e regolare la temperatura prima di chiudere il libro; fanno, se volete, da camera di decompressione prima che si riemerga alla realtà.

Una caratteristica di Neve, cane, piede, che ce lo ha fatto amare particolarmente, è che tutte le curiosità accumulate durante la lettura, che ti costringono a leggere avidamente in cerca di risposte, non vengono appagate: il lettore, abituato e compiaciuto, viene privato della sua condizione di onniscienza, deve rassegnarsi a ciò che non può sapere e a un finale senza respiro. Insomma, riesci a condurre il lettore nella posizione più stimolante, per lui, quella scomoda. Scrivendo, mantieni anche tu questo punto di vista o ti concedi dei segmenti di onniscienza?

L’onniscienza non appartiene a nessuno, tantomeno a me. Nel raccontare sperimento sempre un punto di vista parziale, laterale, un po’ arretrato – quello di Monsieur Hulot nei film di Tati. Mi piace la curiosità che trapela da questa condizione, e anche quel vago senso di frustrazione di chi non si sa spiegare il perché delle cose, dei gesti, ma non smette di osservare. In Neve, cane, piede il narratore insegue Adelmo Farandola, ne descrive minuziosamente i gesti, tenta una perlustrazione dei suoi pensieri, ma non sa davvero spiegare le motivazioni di un personaggio che continua a sfuggire a qualunque analisi. Ma anche ne Le pietre le ragioni del comportamento dell’intera comunità rimangono senza spiegazione, nonostante la voce narrante sia quella collettiva della comunità stessa.
Tutto questo probabilmente deriva dal modo di procedere nella stesura che seguo e sento mio. Personaggi, situazioni, sviluppi, snodi si formano davanti a me, senza che li abbia preparati in un lavoro di mappatura e scalettatura. Il romanzo si fa da sé, in un certo senso, trova una sua strada, si colora di un carattere, trova un registro per conto suo; le pagine sparse si collegano le une alle altre spontaneamente, tendono connessioni non previste e non prevedibili. Io mi limito ad assecondare questo proliferare, mi occupo di equilibri, di spuntatine, di rapporti.

Nei tuoi ultimi due romanzi, ci sembra, narri una condizione di follia di gogoliana memoria: in Neve, cane, piede questa si declina in un dialogo, nel silenzio che lo genera e, successivamente, lo inghiotte; in Le pietre si sviluppa in una coralità di voci, frutto di un io narrante che, articolandosi tra racconti del passato e del presente, sembra far parte di quelle montagne stesse, memoria minerale, atavica. Sono due romanzi legati tra loro per ambientazione, condizioni, pur non essendo ‘seriali’: come è stato scriverli?

Certo, Gogol’, magari tradotto da Landolfi, o, che so, i buffi di Palazzeschi, o Campanile! Mi attrae questa vena di follia, di insensatezza tragicomica, di cocciutaggine delirante che ho scovato nella montagna (anche in Ramuz, per esempio, che però non ride quasi mai), e su cui così pochi si sono soffermati, e credo che scaverò ancora per un po’ lì attorno.
Per me scrivere i due romanzi è stato prima di tutto un divertimento. Mi scappa da ridere quando vedo definire Le pietre “la mia ultima fatica letteraria”. Macché fatica: scrivere è, per me, un piacere, che spero contagioso. Un piacere inventare le situazioni, un piacere trovare le parole più giuste, un piacere smazzare le pagine fino a scovare l’ordine più efficace.

(Collettivo Paolo Uccello, intervista a cura di Cecilia Ercoli)

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