In questi ultimi anni la letteratura di montagna non sta risalendo la china: se l’è lasciata ampiamente alle spalle. Basti pensare al successo di Cognetti con le sue Otto montagne (Premio Strega 2017), oppure a scrittori come Erri De Luca, Franco Faggiani e Walter Bonatti.
Il dato – bisogna essere sinceri – colpisce. Colpisce se non altro per lo stato di salute di una letteratura, quella di montagna, che in molti erano pronti a dare per morta (qualcuno di voi ha più visto in libreria i romanzi di Charles-Ferdinand Ramuz?), eppure…
Un titolo strambo
Eppure è una primavera, quella che la letteratura di montagna sta vivendo in questi ultimi tempi, una nuova stagione di cui è protagonista anche Claudio Morandini, insegnante di lettere aostano (…). Neve, cane, piede colpisce innanzitutto per il titolo – strambo, questo va detto -, un titolo che con un gioco intellettuale coinvolge il lettore, ignaro del legame fra le tre parole, ma a cui la soluzione del rebus viene data nelle prime pagine del romanzo. Neve: la storia è ambientata nelle Alpi innevate; cane: c’è un cane che scorta il protagonista; piede: c’è il piede di un cadavere che riemerge da una slavina.
Un giallo, anzi no. E un solitario
Pertanto Neve, cane, piede è un giallo pur non essendolo affatto: non c’è un detective, non ci sono testimoni, non c’è una falsa pista; c’è solo il protagonista in questo romanzo: Adelmo Farandola, uomo solo. Invecchiato tra le valli inabitate e ignorato persino dai parenti, Adelmo raggiunge il villaggio solo sporadicamente; tutti lo evitano, nessuno gli crede, qualcuno lo compatisce: è un personaggio “deviato”, forse gravemente malato di Alzheimer, oppure affetto da una forma di ritardo mentale. Ma la devianza è il pane di tutte le storie e la letteratura ci insegna che anormale è normale: così il lettore si affeziona presto ad Adelmo, al suo disadattamento, alla sua solitudine piena di umanità. Ѐ frutto di quest’ultima, la stramberia che fa da nerbo a tutta la storia: Adelmo parla col suo cane, e, come se non bastasse, gli mette in bocca delle battute di tutto punto, tali da generare veri e propri dialoghi, a tratti comici:
“Qualcuno bussa alla porta nei lunghi giorni d’inverno. […].
– Chi è? – chiede il vecchio, ma quasi sottovoce, perché non vuole sapere davvero chi bussa. E fermo, zitto, il respiro esitante.
Il cane lo osserva, in attesa. – Che faccio, abbaio? – dice.
– No, fermo.
– Io d’istinto abbaierei.
– Lo so, ma non farlo. Quelli se ne andranno presto.
– Dici?”
Dialogo monologico e terza persona soggettiva
Si tratta di un artificio narrativo efficace che dice molto di più di una lunga descrizione; un “dialogo monologico” che restituisce il polso della complessità, delle paure e del carattere dialettico della natura umana. La prosa di Morandini, poi, è agile, si distende con una sintassi esile, dalle poche proposizioni. Il punto di vista è una terza persona limitata e soggettiva, una tecnica narrativa a cui il Novecento ha fatto ampiamente ricorso: in altre parole la storia è scritta in terza persona, ma “la cinepresa” si trova nella testa del protagonista. In questo modo il lettore vede, sente e conosce soltanto ciò che vede, sente e conosce Adelmo, di cui però non può fidarsi ciecamente, viste le sue condizioni psicologiche. Ne viene fuori una scrittura sincera, comica e spietata.
La solitudine come malattia, l’ostilità alla diversità
Offre anche spunti, il romanzo di Claudio Morandini: spinge a riflettere sulle estreme condizioni di vita in alta montagna, sulla solitudine che diventa malattia, sull’ostilità alla diversità, e, non per ultimo, sulle dinamiche del villaggio. Contro il protagonista, infatti, la comunità esercita la ferocia del pettegolezzo e la violenza di irridenti sguardi di sottecchi, sancendo il definitivo distaccamento di Adelmo dalla vita sociale e il conseguente isolamento nelle valli deserte.
In questo chiave di lettura, Neve, cane, piede non tinteggia affatto la montagna come luogo ameno in cui meditare e osservare la natura, ma ne studia il potere emarginante; della montagna offre una distopia, piuttosto, prigione bianca da cui è difficile scappare.
(Dario Levantino, Lucia Libri)