(A cura di Giovanna Pietrini)

Considero Claudio Morandini tra i narratori contemporanei più originali e visionari. Di seguito gustatevi l’intervista all’autore del libro Le maschere di Pocacasa che consiglio vivamente di leggere e non solo ai ragazzi.

Come hai scelto l’idea per raccontare la storia di Remigio ai ragazzi?

Non è stato difficile: devo essere stato una specie di Remigio, da ragazzino. Solitario, ingegnoso, di immaginazione fin troppo fervida, saputello, un po’ timido, sempre fuori posto, moderatamente gaffeur, isolato in un angolo di mondo che fa da prigione. Crescendo, ho incontrato altri Remigi più o meno letterali, con i quali ho anche fatto comunella. Per raccontare la storia di questo personaggio – la storia di un isolamento che si attenua, di una arroganza intellettuale che viene messa in crisi, in sostanza di una formazione – ho attinto dunque a certi miei ricordi, evitando però l’autobiografia spiccia, e osservandomi per così dire da lontano, dai quasi sessant’anni di oggi.
Un aspetto di quell’età mi attirava, e mi attira ancora: la fantasia e l’inventiva dell’infanzia sono così penetranti che tendono a confondersi con la realtà, a contaminarsi con la quotidianità. Quelli sono anni di vita doppiamente vissuta, intensissima, colma di straordinarie passioni e prodigiose paure, poetica potremmo dire, nella quale ciò che si fantastica finisce per contare quanto ciò che si vede, e in cui si ragiona per immagini, non per astrazioni. Non è poi così diverso scrivere – non lo è per me, se non altro.

La storia contiene il tema del bullismo. Cito un passaggio del libro: «Le loro unghie puntate sul mio petto magro cominciano a far male davvero, e mi sta venendo una certa voglia di piangere. Per fortuna un bidello viene a richiamare all’ordine gli aguzzini e mi permette di rientrare in classe». Come hai trattato questo tema all’interno della storia?

Il bullismo si è imposto da sé, man mano che la storia si sviluppava. Non avevo pianificato un romanzo incontrato su questo tema – le mie priorità erano altre, soprattutto mi interessava inventare una storia ambientata in montagna che andasse incontro al desiderio di avventura dei ragazzi e che fosse in linea con il progetto della collana “I caprioli” e non cadesse nei consueti cliché di tanta letteratura di montagna, così edificante e arcadica. Da quando scrivo di montagna e delle comunità che vi abitano, mi piace esplorarne il lato folle, irrazionale, anche inquietante, ombroso. I carnevali di montagna forniscono esempi straordinari e impressionanti di “follia” collettiva, ben radicata in tradizioni arcaiche. Mascheroni spaventosi e ingegnosi si aggirano tra le vie dei villaggi, creando insieme divertimento e panico. Ecco, nel mio romanzo i mascheroni minacciosi non sono frutto di memorie ataviche, ma di una recente e inspiegabile degenerazione, di una specie di cieca ribellione, di un imbarbarimento incontrollabile. Il bullismo si è infilato nel romanzo da lì, dai mascheroni usati per nascondersi mentre si compiono atti riprorevoli, dal camuffamento delle identità e delle individualità dietro a rozzi mascheroni, dallo spirito del branco.
Non penso comunque che un romanzo, o in genere la narrativa, possa dare soluzioni chiare a un problema, e nemmeno che sia suo compito analizzarlo. Un romanzo non è un saggio, o un’inchiesta giornalistica. Se si fa troppo esplicito in questo senso rischia di perdere per strada le sue caratteristiche e diventare didascalico, predicatorio. Però può parlarne indirettamente, di striscio, può alludere, e fingendo di parlare d’altro può aprire squarci sui grandi temi della nostra vita – credo che questo sia davvero importante, soprattutto oggi che siamo invischiati in una sorta di bullismo o nonnismo generalizzato, ben più contaminante e insinuante di quello che perseguita in ambienti circoscritti come la scuola o l’ambiente di lavoro.

Remigio spinto dalla rabbia fugge lontano dal villaggio. La fuga è un modo per salvarsi?

Quella di Remigio è una fuga, sì, cioè il modo più veloce per mettersi al riparo dai pericoli più immediati e tirare il fiato, e magari osservare le cose da una certa distanza e prendere le misure; allo stesso tempo, come le migliori fughe, è anche e soprattutto una ricerca. Nel suo caso è la ricerca di un alleato, che Remigio troverà nel vecchio Bonifacio. In un primo tempo il ragazzino spera che Bonifacio lo aiuti a vendicarsi: Bonifacio lo aiuterà piuttosto a capire che la vendetta non è una soluzione accettabile, e gli indicherà altre strategie per avere la meglio sui suoi avversari.
Da questa fuga Remigio tornerà cambiato: meno infantilmente supponente, più attento agli altri e a ciò che lo circonda, anche meno solo.

Un altro protagonista del romanzo è la Montagna. Cosa può significare nella vita di un uomo conoscere la montagna?

Io sono nato in mezzo alle montagne: le vedo da ogni lato tutti i giorni, le vedo cambiare a seconda delle stagioni, vi noto gli interventi dell’uomo, d’inverno ne subisco le ombre; in estate percorro i sentieri che le disegnano, mi inoltro nei boschi, tento qualche colle non troppo difficile; mi capita anche di sognarle, di sognare cioè di salire su di esse, con una facilità che nella realtà non avrei e forse nessuno ha. Di sicuro le montagne sono la parte preponderante del mio paesaggio reale e mentale – un paesaggio privo di orizzonte, o in cui l’orizzonte è solo immaginabile, e in cui il sole arriva tardi e di sera fa buio presto.
Avere a che fare con la montagna direi che è soprattutto questo: sentirsele addosso, osservarle rimanendo sempre in basso. È una sensazione talvolta opprimente che non mi abbandona mai, nemmeno quando salgo in alto: si è sempre più in basso di qualcosa, si è sempre sotto, anche quando si è sopra. Immagino che sia una sensazione che provano molti che come me si avventurano in montagna senza ambire a scalare le vette più alte – quella della verticalità dell’ambiente alpino è un’altra faccenda, che mi intriga ma non mi appartiene davvero.
I confini angusti del mondo della montagna sono un invito a valicare, a superare; se non è possibile farlo a piedi, può bastare l’immaginazione. In ogni caso è una tentazione fortissima, quella di vedere, o di fantasticare su quello che si nasconde al di là di un colle o di un crinale. È anche, credo, un bell’insegnamento morale, che agisce in noi anche se non ne siamo del tutto consapevoli.
La montagna è tante altre cose. Per esempio è un invito alla pazienza, è l’imposizione di ritmi e tempi diversi da quelli consueti. È avventura vissuta al rallentatore, per così dire. È, anche, percezione di qualcosa di molto vasto e estraneo che potrebbe esistere benissimo senza di noi, come una specie di pianeta alieno – questa percezione si interrompe d’improvviso di fronte alle devastazioni e ai traumi che, spesso per motivi futili, facciamo subire all’ambiente alpino, o a semplici gesti di maleducazione o di noncuranza.

La storia contiene “messaggi” importanti da trasmette ad un ragazzo come ad esempio non praticare la vendetta, gestire la paura, il valore della sensibilità umana ed è raccontata in maniera estrosa con stile ricco e divertente. Da quanto tempo scrivi?

I messaggi che indichi (sto al gioco e uso un termine come “messaggio” che mi inquieta un po’, ma in questo caso non viene in mente niente di meglio) non sono frutto di calcolo: sono scaturiti anch’essi dalla storia, in modo abbastanza naturale, diciamo proprio dall’interazione tra il dodicenne Remigio e il vecchio Bonifacio. Sono cose in cui credo, e su cui ho cercato di non pontificare. Un ragazzino, colto nel momento in cui trasformazioni fisiologiche pazzesche cominciano a cambiarlo traumaticamente, ha bisogno di osservare e di osservarsi con attenzione e sensibilità e senza troppa enfasi o melodrammi – ne abbiamo bisogno anche noi adulti e anziani, è una necessità che non cessa mai, a pensarci bene. Forse è la prima volta che esprimo così chiaramente questi punti, e scrivere per giovani lettori mi ha aiutato a focalizzarli bene– la paura va tenuta sotto controllo, con la gentilezza si ottiene molto, se lasciate sole anche le menti più acute finiranno solo per rimuginare sterilmente, la fantasia, se ben esercitata, aiuta a trovare soluzioni inaspettate, la vendetta è un modo puerile, sterile e egoistico di rivendicare giustizia, si ha tanto da imparare dall’osservazione paziente di ciò che fanno gli altri, eccetera.
Altro “messaggio” importante: l’umorismo è una forma di smascheramento salutare, serve a scovare significati nuovi, a non accontentarsi della prima impressione o della versione ufficiale dei fatti, è una forma di indagine, un’avventura del senso, ha un che di rivoluzionario dentro, e proprio per questo va affinato, gioiosamente, e praticato come forma di interpretazione della realtà.
Le maschere di Pocacosa è il mio ottavo romanzo, scrivo da parecchi anni e credo di avere sempre praticato l’umorismo, pur accostandomi diversi generi. Mi sento soprattutto un umorista, anche se il mio obiettivo non è propriamente quello di far cadere a terra dalle risate.

Nella vita di un uomo la lettura non è un bisogno primario. Secondo te quanto è importante leggere? Possiamo veramente fare a meno di essere dei lettori?

È vero, leggere è un’operazione che non ci è naturale, e che proprio per questo dobbiamo costruire e mantenere in buono stato per tutta la vita. Però ci è naturale comunicare, e la lettura di un buon libro credo sia la forma di comunicazione più ricca e complessa che ci sia concessa – un dialogo a distanza con qualcuno che ci parla di lontano, usando parole come noi, ma non proprio le stesse, e fingendo spesso di parlare d’altro. Il dialogo tra autore e lettore è un eccitante gioco di indizi e depistaggi, in cui il lettore è chiamato a esercitare un ruolo molto attivo, fatto di interpretazioni, reinvenzioni, sovraincisioni di esperienze personali, ipotesi su ellissi e snodi narrativi, appropriazione insomma. Che l’autore deleghi, che non dica tutto, che non architetti tutto, credo sia fondamentale. Il dialogo autore-lettore poi si allarga, rivela essere solo parte di un fitto, intricato scambio che attraversa epoche, culture, in cui per esempio finiscono anche gli altri autori di cui l’autore è stato a sua volta lettore. I libri risuonano gli uni degli altri, a patto che abbiano un po’ di spessore, e il lettore dotato di buon orecchio se ne accorge.
Mi piace l’idea che attraverso i libri il lettore si apra all’empatia, si confronti con l’alterità, penetri in vite che non avrebbe mai potuto vivere – su questo c’è ormai una letteratura critica e scientifica piuttosto convincente, che però tende a mettere nello stesso calderone qualunque tipo di fiction, dall’epica omerica ai serial di Netflix, e mi pare si concentri troppo sul contenuto, sul plot, trascurando in buona parte ciò che rende davvero originale e preziosa la letteratura, cioè il come, la forma, o meglio le forme molteplici che assume il senso. La letteratura ha questo vantaggio rispetto alle altre forme di narrazione: non racconta proprio tutto, non lo racconta come lo racconteremmo noi, sovrappone, nasconde, vela, devia. Ci costringe – no, meglio, ci invita – a ragionare sulla molteplicità, sulle connessioni, sulle stratificazioni. Fa sentire che le stesse parole usate hanno una loro storia parallela, e che il racconto di questa storia corre nascosto tra le righe.
E ancora: leggere ci aiuta ad attribuire il giusto peso alle parole e alle correlazioni tra le parole: in tempi di spensierata, irresponsabile desemantizzazione della parola, mi pare importante.
L’esercizio della lettura ci prepara insomma a una visione più matura e consapevole dell’intricata complessità del mondo, del gigantesco gioco di illusioni e disillusioni in cui viviamo e moriremo. Sono tutte cose già dette da molti, ma mi convincono e le condivido.

(A cura di Giovanna Pietrini, Mivienedaleggere)

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