Sospinto dagli ottimi esiti conseguiti e dai lusinghieri allori meritati grazie alla sua recente svolta narrativa verso ambientazioni e temi legati alla montagna (Neve, cane, piede, 2015; Le pietre, 2017), Claudio Morandini ha provveduto, col suo ultimo romanzo, Le maschere di Pocacosa (Salani 2018), ad attribuirle un felice seguito anche nell’ambito – a quanto risulti, da lui sin qui non frequentato – della letteratura per ragazzi, trovando ospitalità in una collana («I caprioli») che, sotto l’egida del Club Alpino Italiano, proprio a un avvicinamento dei giovanissimi alla montagna attraverso la narrativa è dedicata.
Vero è che i due fortunati romanzi alpini sopra menzionati in un certo senso invitavano all’impresa: in virtù del nitore fiabesco e della mai artefatta forza simbolica di molte loro pagine, proponibili tranquillamente anche a lettori ben al di qua dell’età adulta. Ma, almeno a priori, avrebbe potuto suscitare qualche dubbio la difficoltà di curvare una scrittura sempre così ricca di sfumature, cólte assonanze e talora preziosismi quale quella dell’Autore, sulle capacità interpretative, inevitabilmente acerbe, della fascia anagrafica in parola. Invece, Morandini riesce con invidiabile naturalezza a rimanere sé stesso a dispetto delle necessarie semplificazioni e omologazioni ai requisiti che il genere impone, trovando anche modo, e nemmeno troppo di straforo, di assecondare la propria abituale propensione alle soluzioni originali, ai contesti spiazzanti.

La vicenda del racconto è presto riassunta, almeno sin dove non lo vieti il rischio di spoiler, che sarebbero, nella fattispecie, particolarmente inopportuni.
Nel piccolo abitato di Pocacosa settori per così dire deviati del corpo dei figuranti di una sfilata in costumi storici di antica e nobile tradizione imperversano ormai da molti anni e molti carnevali, perseguitando i loro compaesani più civili e assennati con sciocchi, quando non sadici, dispetti e sinistre mascherature; e questa masnada di hooligan dementi e ripetitivi non ha proprio rispetto per niente e nessuno, men che meno nei confronti del dodicenne Remigio, simpatico e incolpevole secchioncello che ha il solo difetto di essere molto più intelligente di loro, amare i congiuntivi, surclassare persino il suo insegnante, tanto la sa lunga. Minacciato e bullizzato, il ragazzino si macera in un rancoroso imbarazzo, allestisce improbabili contromisure.
Ci sarebbero, insomma, le migliori premesse per uno sdipanarsi della trama lungo i binari più ortodossi del filone revenge. Sennonché, come detto, Morandini rifugge dai percorsi scontati; e introduce da subito nel racconto un deuteragonista fuori dagli schemi: il vecchissimo Bonifacio, sorta di incrocio tra uomo-albero e babau in quiescenza, a sua volta in tempi antichi amante di orrifici travestimenti, dettati però e semmai da un sentimento panico intriso di nobile, ancorché ruvida, moralità, e in fin dei conti amore per i propri simili. Un personaggio sapientemente scolpito e coinvolgente, che rammenterà ai numerosi estimatori di Neve, cane, piede l’indovinata figura del burbero Adelmo, in lui resuscitata in versione ingentilita, amabilmente didascalica, altrettanto seduttiva.
Fra il vegliardo e l’imberbe è dunque complicità a prima vista: unita a un medesimo istinto di giustizia, che indurrà il primo a guidare il secondo lungo un articolato percorso conoscitivo, fatto di sobria maieutica e suggestioni silvane, al termine del quale lo scioglimento ingegnoso della vicenda costituirà bensì, per i lettori di ogni età, una sorpresa, ma a questo punto edificante come il canone richiede, e suffragata da inappuntabile coerenza.

(Guido Conterio, Diacritica n. 24, dicembre 2018)

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